Senza Titolo
ANDREA PENNACCHIRiaprono i teatri, e a differenza dei cinema (a cui auguro una pronta guarigione), il pubblico torna a riempirli. Dopo un lungo periodo di disamore, la scintilla della passione torna a scoccare. Forse perché a teatro il pubblico sente di essere necessario, parte fondamentale del racconto, dello spettacolo. Ecco, questi pensieri, a me li ha messi in testa Shakespeare...Nel 1989 cade il muro di Berlino. Accanto all'ebete de "la fine della storia", nuotava un banco di tristi ottimisti: «Col benessere e la pace che seguiranno il trionfo del capitalismo e della democrazia occidentali» dicevano «perderemo la capacità di apprezzare e capire appieno l'opera di Shakespeare, nata in tempi turbolenti, di guerre, epidemie e disastri naturali». Oggi, siamo ancora tutti elisabettiani, e i pezzi dei muri caduti li abbiamo messi in tasca, come semi (il venetian speaker apprezzerà il sapido calembour), e piantati nei giardini di casa e nelle teste, dove crescono rigogliosi. Ma un vantaggio lo abbiamo: la fine degli anni Ottanta aveva relegato i racconti a intrattenimento, o colto hobby per pochi; il nuovo secolo li ha riportati a bene necessario, poco sotto il pane e l'acqua, per noi prigionieri a cui serve un'immaginazione ben sviluppata, per immaginare la molteplicità necessaria a evadere, se non addirittura a cambiare il mondo.Siamo abituati al debate da social, allo schierarsi sotto un post-stendardo da difendere a ogni costo. Il teatro, invece, addestra a vestire i panni dell'altro, ad ascoltare le voci discordanti (anche dentro di sé), a simpatizzare col male, col cattivo, a riflettere sulle conseguenze di ogni azione. È specchio, davanti al quale puoi confrontarti con ciò che è ignoto, non familiare. Il teatro non è questione di tifoserie contrapposte, è dibattito, anche scontro, da cui non necessariamente esce una voce trionfante, e non è immediato, richiede tempo, attenzione, ascolto, partecipazione, mobilita le emozioni - di brutto - ma non cede alla facile esca dell'indignazione quotidiana.Shakespeare sa che essere cavalcati dalla rabbia non ti libera da niente, anzi alla lunga diventa malattia che si nutre di se stessa (come la gelosia, mostro dagli occhi verdi) e cresce finché in qualche modo, da qualche parte, devi sfogarla. Il teatro, al contrario, è nato come farmaco per queste malattie che affliggono la società. La ricchezza stessa del linguaggio teatrale shakespeariano - le metafore, le immagini fiammeggianti - si presenta come antidoto alla neolingua semplificata da social, all'impoverimento del monologo fatto di ripetizioni martellanti e parole povere che dominano il discorso culturale e politico attuale, mentre in un dramma sarebbero a malapena sufficienti a delineare un personaggio minore. Ancora oggi, come negli anni Settanta, Shakespeare è «nostro contemporaneo» (Jan Kott). Anzi, meglio ancora: «Non fu di un'era, ma di tutti i tempi» (Ben Jonson). Siamo noi che abbiamo perso familiarità col teatro. Un attore non può dimenticare che il teatro è un rito, quasi una possessione, e deve vivere il paradosso che è alla base della sua arte: essere presente, cosciente, razionale persino, e abbandonarsi totalmente al mito che si racconta, al personaggio. Dioniso e Apollo: prìvati di uno dei poli e sei finito. --© RIPRODUZIONE RISERVATA Il libro di Andrea Pennacchi"Shakespeare and me" (People)sarà in librerial'11 novembre.Lo spettacolo omonimosarà in scenaal Teatro Verdi di Padovail 26 novembre