La formidabile potenza del segno di Sironi tra grandiosità e tormento esistenziale
Virginia BaradelChe Sironi fosse un grande pittore lo avevano capito in molti già dagli anni Venti, a partire da Margherita Sarfatti che lo vide alfiere del suo Novecento, cantiere della nuova arte dove l'antichità classica si univa alla modernità industriale. Fu fascista della prima ora ma la sua pittura, ben poco rassicurante, non fu mai utile al fascismo come emerso da studi ormai condivisi: nessuna traccia del realismo celebrativo gradito al regime. La sua conclamata militanza era dovuta più all'amicizia personale col duce e all'idea della rinascita dell'Italia come storia, arte e popolo. Tremenda fu dunque la delusione dell'epilogo bellico che popolò di spettri minerali l'ultima stagione della sua pittura. Sironi intendeva abolire l'arte come lusso dei salotti borghesi per metterla a disposizione del popolo. Il muralismo venne teorizzato tra il 1932 e il 1933 ma l'eloquenza perentoria, arcaica, allarmata delle sue figure fu una costante anche nel piccolo formato. La cupa metafisica delle periferie urbane è il lato oscuro della modernità industriale ed è fedele riflesso dell'inemendabile travaglio personale. Ma quel che conta è la formidabile potenza espressiva del suo segno che si dispiega, variato di tono, anche nelle illustrazioni delle quali fu prodigo disegnatore. La mostra allestita ad Abano "Mario Sironi. Un racconto dal grande collezionismo italiano", curata da Chiara Marangoni e Alan Serri, prodotta dal Comune di Abano, CoopCulture e Galleria 56 (fino all'8 gennaio), consente di attraversare l'arco della produzione dell'artista da una prova giovanile, un sorprendente, piccolo "Paesaggio" di forte cromatismo scoperto di recente, sino alle ultime prove degli anni Cinquanta, gli "anni della solitudine" e del disinganno totale che incasella e mura le figure entro porzioni di spazio saturo di materia, privo d'aria e di luce con qualche sprazzo di cobalto e il riparo terroso dell'ocra. Le opere in mostra arrivano da collezioni private, dunque un'occasione unica per ammirarle. Alcune tolgono il fiato come "Il grande silenzio" del 1953, della stagione dolente eppur feconda del lungo dopoguerra dove domina il tema della montagna. I soggiorni cortinesi da Mario Rimoldi giovavano al suo spirito, l'angoscia usciva e saliva a spianare pendii come ombre di pece, ma il tramonto lasciava tracce arrossate che colpivano di netto le rocce esposte. Possenti nella corposa e sgorbiata fisicità sono le figure solitarie, scolpite con impiastri di materia che riducono la plasticità al forte contrasto tra i neri e i bianchi rinforzati d'accenti policromi. Nel percorso trovano posto ogni forma e tecnica d'espressione, dalle carte con le periferie urbane alle illustrazioni satiriche, fustigatrici di uomini piccoli "come schizzi di fango", profittatori, adulatori, ladroni ai lati della croce. La sua casa per molti anni fu "Il popolo d'Italia" che illustrò quotidianamente dal 1922 al 1943 con feroce estro caricaturale. Il bozzetto per la copertina dell'Almanacco del Popolo d'Italia è un piccolo capolavoro di sintesi dove un saettante Icaro rosso con le braccia stese, sembra offrire l'energia del volo a un impacciato aereo sospeso nel blu. Non manca il celebre manifesto per la mostra della Rivoluzione fascista del 1932 in versione spagnola, né qualche bozzetto per la pubblicità della Fiat, una committenza prestigiosa e duratura. Due pregevoli prove futuriste mostrano i segni di una vocazione comunque volumetrica, incline a movimentare la scomposizione più che a vorticare il dinamismo. L'Uomo nuovo corre in moto in una tempera e china tutta curve e triangoli acuti. I cartoni per affresco raccontano del suo piano per doppiare l'architettura con la pittura, unite in un'unica volontà di grandezza cui aspirava senza cedimenti al gradimento: "La Giustizia e la Legge", tranche dell'"Italia corporativa", mostra i tratti del suo classicismo arcaico, squadrato e sintetico, una monumentalità solenne ma senza luce e senza gloria. --© RIPRODUZIONE RISERVATA