Perona: le delocalizzazioni sono state un azzardo servirà tempo per rimediare
Luigi dell'Olio«Oggi paghiamo la miopia degli anni Novanta e Duemila, la ricerca del profitto di breve piuttosto che dell'efficienza strutturale e sostenibile». Marco Perona, professore ordinario di Logistica industriale e supply chain management all'Università degli Studi di Brescia, nonché direttore scientifico del Laboratorio Rise-Research and Innovation for Smart Enterprises presso il medesimo ateneo, mette il dito nella piaga a proposito delle difficoltà che stanno caratterizzando le catene di approvvigionamento internazionali.Lo scoppio della pandemia, con i lockdown conseguenti, ha messo in crisi la globalizzazione, rispolverando il valore della vicinanza tra produzione e distribuzione. Quanto ci vorrà per questo cambio di paradigma? «In realtà i dubbi sulle scelte di offshoring compiute da molte aziende negli anni Novanta e Duemila erano già stati sollevati qualche prima di Covid-19, ma - come per altri settori - la pandemia ha agito da acceleratore. Ad esempio, negli ultimi 30 anni l'Italia ha perso buona parte della propria produzione manifatturiera nei settori degli apparecchi domestici e dell'auto. E anche in tanti altri settori molte aziende hanno preferito spostare la produzione nei Paesi del Far East per approfittare di costi del lavoro ben più bassi. Si è trattato di un azzardo, come è emerso chiaramente con lo scoppio della pandemia».Perché parla di azzardo?«Perché in Germania, che pure ha un costo del lavoro più alto del nostro Paese, hanno fatto una scelta diametralmente opposta e oggi si scopre che sono stati lungimiranti. Stare in Italia avrebbe imposto di agire sui fattori strutturali della competitività: dall'automazione all'eliminazione degli sprechi, e dalle competenze professionali all'organizzazione, preservando la leadership italiana su basi più solide, salvando posti di lavoro e difendendo i salari».Poi è arrivata l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia a peggiorare ulteriormente la situazione...«Anche su questo fronte avremmo dovuto mettere in conto un peggioramento della situazione già elettrica dal 2014, anno in cui è stata occupata la Crimea. Giustamente il governo italiano è impegnato in un fitto dialogo con altri Paesi per diversificare la dipendenza energetica dalla Russia. Ci vorrà tempo per rinnegare le scelte dei passati decenni: no al nucleare, no alle rinnovabili, no allo sfruttamento delle nostre piccole riserve di gas. E lo stesso vale per i prezzi dell'acciaio, che colpisce soprattutto il Triveneto, legato alle forniture in arrivo dall'Ucraina. Le aziende si sono mosse e hanno trovato alternative, che però saranno più costose».Ora c'è spazio per recuperare il terreno perduto?«La gestione del rischio è alla base di ogni attività di business e non ne abbiamo tenuto conto, legandoci mani e piedi per le forniture a Paesi con evidenti problemi in termini geopolitici. Ora l'emergenza è di mettere in sicurezza la produzione di semiconduttori, che è per i due/terzi concentrata a Taiwan. Già oggi una produzione che non riesce a soddisfare la domanda: proviamo a immaginare cosa potrebbe accadere qualora la Cina seguisse lo stile-Putin. Come Italia non abbiamo certo la forza per dialogare con le superpotenze globali: occorrerebbe una maggiore coesione a livello europeo. Se il Vecchio Continente riesce a parlare con una voce sola, può aiutare anche l'Italia a recuperare il terreno perduto sul piano della competitività».--© RIPRODUZIONE RISERVATA