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Lo avevano già fatto sapere durante l'ultimo vertice europeo, lo ribadiscono oggi, stavolta attraverso un portavoce della Commissione dopo una riunione degli ambasciatori dei Ventisette: «Il 97% dei contratti di vendita di gas russo prevede esplicitamente il pagamento in euro o dollari». Dunque le aziende «non dovrebbero aderire alle richieste di Mosca». Il braccio di ferro sul metano è l'altra faccia del conflitto in Ucraina. Per l'Unione il dilemma è sempre lo stesso: come fermare una guerra che non ha voglia di combattere. In questo caso il dilemma vale anche per Putin. Dai tubi delle steppe russe transita ogni giorno gas per un miliardo di euro. Se lo Zar desse seguito ai suoi proclami, nel giro di due mesi sarebbe costretto a chiudere i giacimenti e a rinunciare all'unica entrata fin qui salvata dalle sanzioni. «Il pagamento delle consegne in corso dovrebbe essere effettuato fra aprile e l'inizio di maggio», diceva ieri il portavoce Dmitry Peskov. Un penultimatum che sottolinea la difficoltà a trasformare le minacce in qualcosa di più concreto. Per ora siamo alla guerra di nervi: ieri mattina per alcune ore - e non è la prima volta che accade - si è interrotto il flusso del gasdotto Yamal che trasporta l'energia dalla Russia alla Germania attraverso la Polonia. Per capirne di più occorre spiegare come funzionano oggi i pagamenti degli acquirenti europei. La banca di riferimento del forniture russo - la più grande è Gazprombank, fin qui graziata dalle sanzioni e con filiali in tutta Europa - gira i fondi su un conto a Mosca, dove la gran parte degli incassi è convertita in rubli. Se le sanzioni fossero estese, i fondi in valuta estera potrebbero essere così congelati. La complicata architettura ideata dal Cremlino imporrebbe ai clienti europei la conversione e il rischio del cambio in rubli. Con questa richiesta lo Zar ottiene due risultati: sostiene il cambio della moneta russa e allontana lo spettro di nuove sanzioni. Se ne riparlerà all'inizio della settimana al tavolo dei ministri del Tesoro europei. Il dato politico è un altro: ogni giorno che passa il finanziamento della guerra dello Zar in Ucraina stride con gli sforzi diplomatici per farla cessare. Per questa ragione in tutte le cancellerie si studiano le alternative. Il ministro della Transizione energetica Roberto Cingolani ieri ha dettagliato quelle di breve termine. L'Italia compra da Mosca poco meno di trenta miliardi di metri cubi di gas l'anno. La più importante alternativa viene dall'Algeria: fino a nove miliardi di metri cubi. Ieri Draghi ne ha parlato al telefono con il presidente algerino, con il quale avrà presto un incontro. Un altro miliardo e mezzo può arrivare dall'Azerbaijan attraverso il gasdotto Tap, altri sei miliardi di metri cubi potrebbero essere ricavati aumentando la capacità dei rigassificatori di La Spezia, Livorno e Rovigo. La somma di queste misure vale la metà del fabbisogno russo. Per rinunciare al resto serve tempo: Snam ha già ordinato due rigassificatori galleggianti e nel frattempo l'Eni può riaumentare la produzione nazionale per due miliardi di metri cubi nel Canale di Sicilia e davanti alle coste marchigiane. Per rafforzare gli impianti di rinnovabili occorre ancora più tempo: otto gigawatt di potenza installata fanno risparmiare tre miliardi di metri cubi. L'ultimo decreto del governo consente una forte deregolamentazione degli impianti. Se le stime di Confindustria sono corrette, la situazione autorizzativa è grave: il 90% dei progetti per impianti e solari eolici presentati l'anno scorso è ancora sulla carta. L'ultima ratio sono la riattivazione delle centrali a carbone e il risparmio energetico. Le prime potrebbero garantire cinque miliardi di metri cubi l'anno, un grado in meno di riscaldamento e il taglio dell'illuminazione pubblica permetterebbero di fare a meno di altri tre. Sembra poco, ma è un decimo di quel che importiamo ogni anno dallo Zar di Russia. --© RIPRODUZIONE RISERVATA