Veltroni: «Il Pd allarghi la sinistra stia con Draghi e pensi agli ultimi»

l'intervistaFrancesca Schianchi / roma«Quel giorno la città cambiò umore, persino colore. Un po' come ora». Nella prima mattina di nuovo lockdown, le finestre non lasciano trapelare nessun rumore. Nel salotto in cui pareti stipate di libri si alternano a quadri e stampe - un meraviglioso disegno di Ettore Scola accanto a uno schizzo di Renzo Piano - Walter Veltroni parte dall'anniversario di oggi per ragionare del presente. Da «quel giorno» di quarantatré anni fa, quel 16 marzo 1978 in cui Aldo Moro venne rapito. «È come se ci fosse stata una cesura del tempo da quel mattino». Vuole ricordare il «coraggio» di Moro e Berlinguer per arrivare a oggi, al suo ottavo successore Enrico Letta e al Pd osservato con «affettuosa attenzione e doverosa distanza», che «ha davanti a sé spazi enormi». Sono passati 43 anni da quel 1978. Com'è cambiato il Paese? «Fino alla caduta del Muro, la vita politica italiana si è dibattuta nelle sue contraddizioni. Poi c'è stata quella che fatico a definire Seconda Repubblica...». Perché? «Perché una nuova Repubblica nasce quando cambia la Costituzione, come in Francia, non quando cambia la legge elettorale. Merkel è cancelliera da 15 anni, noi continuiamo ad avere un governo all'anno, siamo alle prese con una stabilità mai raggiunta, restiamo il Paese dei Turigliatto e dei Ciampolillo». La caduta del Muro è stata evocata anche da Enrico Letta domenica: la fine della pandemia, ha detto, scatenerà energie come fu per la sua generazione la caduta del Muro...«Penso anch'io che ci sarà un prima e un dopo pandemia. Si sottovaluta forse che, insieme agli effetti sociali, si fa strada un profondo disagio psicologico, specie tra i più giovani. Quando tutto finirà e la gente tornerà a vivere sarà come la fine di una guerra. Non ci sono stati bombardamenti. Ma centomila vittime, la morte nelle case, la paura in ciascuno». Qual è il ruolo del Pd in questa fase? «Mai come in questo momento sono confermate le ragioni per cui è nata una grande forza riformista di massa. Nella commedia degli inganni che è la politica di oggi, penso ci sia uno spazio enorme per una forza riformista, innovativa. E coerente, mentre tutti cambiano posizione su temi fondamentali, come sull'Europa». Ci crede alla svolta europeista della Lega? «Ci credo come a tutto quello che viene detto in questo tempo strumentale. Si può cambiare idea, ma lo si fa passando dal dolore della revisione critica di se stessi: qui ormai basta un tweet». Il Pd, invece, diceva, ha ancora ragion d'essere...«Il Pd nacque per tre ragioni: creare un grande partito riformista di massa che l'Italia non aveva mai avuto, farlo non per scissione ma per fusione, completare il percorso di riforme istituzionali del Paese». Il Pd è stato fondato nel 2007. Se le ragioni sono ancora lì intatte, 14 anni sono passati invano? «Invano no. Il Pd è rimasto centrale in questi anni nella politica italiana, e ora con Enrico Letta può tornare a un cammino che assomigli alle ragioni della sua fondazione». È sicuro? Letta ha fatto l'elogio delle coalizioni, il suo Pd era quello della vocazione maggioritaria. «Ma la vocazione maggioritaria è prima di tutto un fatto sociale: costruire consenso nella società per mettere quella forza politica al centro di un'alleanza progressista». Per anni abbiamo interpretato la vocazione maggioritaria come una tensione all'autosufficienza. Invece è d'accordo con lui sulla necessità di costruire alleanze? «È ovvio che ci vogliano alleanze: il problema è se si agglutina un'alleanza con nove partiti destinata a sgretolarsi oppure si costruisce uno schieramento fondato su una grande forza che si fa garante dell'indirizzo riformista e si allea con altri. In questo caso ha senso sollecitare i Cinque stelle a scegliere da che parte stare». L'ultimo Pd era passato anche dal maggioritario al proporzionale...«Sull'assetto istituzionale negli anni si è fatta confusione, perdendo di vista la visione d'insieme. Per esempio, siamo a marzo e ancora non si è visto nulla delle annunciate riforme conseguenti al referendum per il taglio del numero dei parlamentari. Io rimango convinto che il problema italiano sia la stabilità e che questa venga meglio garantita da un sistema maggioritario». Ius soli, giovani, donne: le piace il programma enunciato da Letta? «Molto, ritrovo una visione. Aggiungerei che è necessaria una grande attenzione agli ultimi, a chi soffre, a chi è solo. Mi rendo conto che la lotta alla solitudine è difficile da classificare nel vocabolario tradizionale della politica, ma quando il 30 per cento dei nuclei famigliari è composto da una persona sola, è necessario occuparsene. Ne discende un'idea nuova di welfare». Letta ha evocato il problema delle correnti. Nel suo discorso di candidatura del giugno 2007, lei diceva che «non si comincia un nuovo viaggio con un equipaggio dilaniato da vecchi rancori». Sono passati anni e siamo ancora lì. «Vede, io non mi dimisi da segretario per la sconfitta alle elezioni sarde, ma perché non c'erano più le condizioni per fare il partito del Lingotto e del Circo Massimo. Si erano strutturate più organizzazioni dentro al Pd che vedevano in me il problema. Dovevo scegliere se salvaguardare il mio ruolo o salvaguardare il Pd». Lei andandosene disse: «Non fate al mio successore quello che avete fatto a me». Zingaretti ha detto di vergognarsi di un partito che parla solo di poltrone. «Credo che Nicola si sia speso e abbia sofferto molto. Ha usato una frase forte, ma forse sarà uno choc utile». Davvero? Lei ci crede che possa cambiare qualcosa in una dinamica che si ripete identica da anni? Come atteso, domenica scorsa erano tutti lettiani. Quanto durerà? «Enrico ha la forza e l'esperienza vissuta necessaria per fronteggiare il rischio di una unanimità di facciata. Ma occorre mettere nel partito giovani ed energie nuove». Occorre anche provare a recuperare chi se n'è andato? «Mi auguro che si ricongiungano tutti quelli che sono stati nel Pd». Anche Renzi? «Ci si può ricongiungere non solo nello stesso partito, lo si può fare anche in un'alleanza, purché sia chiaro l'indirizzo politico e ci sia sincera solidarietà. Quella che è mancata sempre in questi anni, fino alla caduta di Conte. A sinistra bisogna prima o poi abituarsi a convivere: non è possibile che l'unica forma del dibattito sia l'unanimismo oppure le scissioni». Non è possibile anche, dice il neosegretario, essere il partito del potere, condannato a stare al governo. «Da molto tempo è così: se da anni stai al governo e la maggioranza del consenso va al centrodestra, ti devi porre il problema. Una delle ragioni per cui il Pd nacque e ancora serve è per rimuovere l'idea un po' cinica secondo cui la sinistra può essere solo minoranza. Se la pensi così, allora hai una sorta di vocazione minoritaria e ti allei con chiunque pur di governare. Il governo diventa un fine e non un mezzo per cambiare il Paese. Ma una grande sinistra sa stare al governo e all'opposizione. Bisogna rimettere radici dove la sinistra di un riformismo radicale deve stare». Che consiglio darebbe al Pd e a Letta? «Al Pd consiglio di sentire il governo Draghi come il proprio e di non fare la vedova del governo precedente. È giusto rivendicarne i meriti: il governo Conte ha fronteggiato bene la pandemia, ma ora guardiamo avanti. A Letta, dico che ho grande fiducia in quello che farà. Forse vado contro lo spirito del tempo ma sono molto ottimista sul futuro del Pd: ha davanti a sé spazi enormi. Se farà ciò per cui è nato: dare al riformismo italiano un grande consenso di popolo». --© RIPRODUZIONE RISERVATA