Senza Titolo

Jacopo D'Orsi /Torino Il sopravvissuto. Marco Giampaolo è pronto a ripartire dal Toro, lo aspetta un'altra scalata dopo una rovinosa caduta, in fondo è sempre andata così in una carriera che sembra un tappone del Giro d'Italia tra scatti e crisi, gioie e fallimenti, illusioni e rivincite. Con una costante: mai nulla di facile, di lineare, di regalato, tutto - poco o tanto che sia - conquistato fino all'ultima goccia di sudore. A proposito, ricordiamo bene quanto ne versò un anno fa sotto i caldi riflettori di Milanello, durante la presentazione da allenatore del Milan. Che faticaccia reggere la parte. Questione di carattere, chiuso come pochi, profondo come il mare su cui trova pace con gli amici nei momenti liberi e in quelli bui. Chiedere conferma ai giocatori, con i quali di solito se la vede il preparatore atletico Stefano Rapetti, un passato nell'Inter di Mourinho. Sfidò Conte, rispose con un «testa alta e giocare a calcio» al «testa bassa e pedalare» ringhiato dal collega interista il giorno prima, ma a occhi bassi, senza dare l'impressione di crederci fino in fondo. Forse aveva già capito come sarebbe andata, che non sarebbe stato in grado di tradire se stesso adattandosi a una squadra costruita fregandosene delle sue indicazioni, fuori taglia per il 4-3-1-2 che è il suo vestito di gala. Sapeva che come sempre avrebbe tirato dritto per la sua strada, a costo di scontrarsi con la realtà. Nemmeno l'«endorsement» del sommo Sacchi gli ha staccato di dosso l'etichetta di «inadeguato». Il Milan, che oggi lo slega dal vecchio contratto, non ha avuto la pazienza di aspettarlo. Il Toro, con cui si sposa per due anni più l'opzione per un terzo a 1,5 milioni a stagione, dovrà averla, considerando oltretutto che se ne andranno tre pilastri come Sirigu, Izzo e Nkoulou. Se Cairo si fiderà, sarà ricompensato. Giampaolo è un uomo che va atteso. In blucerchiato, la sua esperienza più lunga (tre stagioni), ha svezzato carneadi come Skriniar, Schick, Praet, Torreira e Andersen, rivenduti a peso d'oro dal presidente Ferrero. «Con lui parliamo di calcio e di donne, mi lascia lavorare», raccontava felice. Detesta le intromissioni, i suggerimenti dall'alto, le imposizioni. A Maldini e Boban che lo imploravano di schierare i nuovi acquisti, rispose con la vecchia guardia. A Cellino, che nel 2007-08 a Cagliari lo richiamò dopo il secondo esonero, semplicemente con un «no». «La dignità non ha prezzo».«Sono sempre stato molto testardo. Non ho mai svenduto le mie idee, né sono mai sceso a compromessi per salvarmi il posto. La vittoria è essere in pace con se stessi», ci disse del resto qualche tempo fa ricordando la fuga di Brescia nel 2013, quando rifiutò l'umiliazione di doversi confrontare con gli ultrà che non volevano l'ex atalantino Gallo come suo vice. Finì addirittura su «Chi l'ha visto?», si era soltanto dimesso. Come sempre seppe riemergere dall'oblio, lui che una sera d'estate del 2009 era andato a letto da allenatore della Juve per poi risvegliarsi con Ciro Ferrara confermato in panchina. Dopo Brescia è ripartito dalla C, a Cremona, «l'ultimo treno: volevo vedere se sarei riuscito a tornare in A ricominciando dalla categoria più bassa del professionismo». Inflessibile soprattutto con se stesso, meritò l'unico colpo di fortuna: fu Sarri, scelto dal Napoli, a «raccomandarlo» all'Empoli: «Prendetelo, gioca come me». A meno di sorprese lo ritroverà da avversario nel derby, alla guida di un Toro da rimettere al mondo. La speranza, dopo aver spremuto 26 gol dal 36enne Quagliarella nel 2018-19, è poter rifondare attorno a Belotti, come ogni estate al centro del mercato. Da «finito» a un'altra rivincita, è ora di riprovarci: in fondo questa è sempre stata la sua storia. --© RIPRODUZIONE RISERVATA