«Io, il Mastro, ma il mio idolo era Sivori Il calcio del Covid mi fa tanta tristezza»
L'INTERVISTAStefano Edel / CHIOGGIAAlla Massese, dov'era approdato a 19 anni, gli coniarono il primo soprannome: "Nuovo Mario Corso". Il secondo sarebbe arrivato molti anni dopo, a Padova: Mastro. Eppure, Franco Cerilli, 66 anni, da Chioggia, un piede sinistro vellutato quando trattava il pallone, del Mariolino interista (scomparso da poco) e della figura del capo-squadra aveva ben poco. Perché, calcisticamente parlando, si sentiva vicino solo al suo grande idolo, Omar Sivori, juventino doc. «Sin da piccolo amavo lui, non Corso. Se mi avessero attribuito l'appellativo di nuovo Sivori, mi avrebbe fatto più piacere».Come nasce il Cerilli calciatore?«Sono cresciuto con il pallone in mano. Ero il terzo figlio di papà Giuseppe e mamma Lidia, con due fratelli più grandi, Ferruccio (76 anni oggi) e Paolo (73). A quei tempi i primi calci quasi tutti li hanno tirati nelle calli di Chioggia. Lì ho imparato la tecnica, si giocava in spazi stretti».Prima squadra il Sottomarina.«Già. Avevo 13 anni quando andai a fare un provino nel Clodia, e venni scartato. Allora mi presentai al Sottomarina e fui preso. Feci tutta la trafila, Giovanissimi, Allievi, Juniores, e poi a 16 anni esordii in terza serie. Giocammo ad Udine e quel giorno segnai. Il massimo».Seconda esperienza la Massese. «Due anni con i toscani, in C, dove riuscii a mettermi in mostra. Venivano a vedermi diversi osservatori di club di Serie A. E l'Inter mi acquistò che non avevo ancora 21 anni». Eppure con la Beneamata visse due stagioni incolori. Perché? «Volevano puntare sui giovani, ma a Milano devi vincere subito, altrimenti piovono le critiche. Debuttai in A contro la Juventus, perdendo 1-0, non feci tante partite però, e il motivo lo scoprii dopo. Luisito Suarez, quando era osservatore per il Genoa, mi aveva bocciato. Me lo ritrovai allenatore all'Inter, e dunque non è che mi vedesse bene. Una domenica contro la Lazio disputai una grande gara e fui osannato da stampa e tv. La settimana successiva c'era il derby, mi schierò fuori ruolo, ala sinistra, contro Sabadini, un terzino che faceva i 100 metri in... 10 secondi. Perdemmo 3 a 0, giocai male e mi mise in naftalina. Comunque, in quei due anni all'Inter imparai tanto».E arrivò la prima volta a Vicenza, 1976/77, in prestito.«Tutti ci davano per retrocessi, invece avevamo gente dai piedi buoni, come Salvi, Faloppa, Filippi, lo stesso Paolo Rossi. Partiti in sordina, ci qualificammo in Coppa Italia, e da lì spiccammo il volo per vincere la Serie B, grazie anche alle idee di un mister come G. B. Fabbri, che amava il gioco tecnico e fantasioso e che decise di spostare Rossi da ala a centravanti, la classica ciliegina sulla torta. L'Inter a fine annata mi riprese e mi mandò di nuovo in B, a Monza, dove trovai Alfredo Magni, che pensava fossi un'ala mentre giostravo un po' su tutto il fronte d'attacco. Non mi trovai bene. A novembre chiamò Giussy Farina e mi riprese al Lanerossi».Il Real Vicenza incantò tutta Italia...«Arrivammo io e Guidetti. Eravamo di scena a Bergamo, ultimi con soli 3 punti. Ci imponemmo 4-2, la squadra prese fiducia, pensavamo a divertirci e a far divertire. Molto probabilmente avremmo anche potuto vincere il titolo, perché giungemmo a pochi punti dalla Juve tricolore. Avevamo l'abitudine il venerdì sera di andare tutti a cena da Giovanni, a Sant'Anna Morosina, dato che il titolare era cugino di Galli. Grande gruppo e perfetta armonia, nessuna invidia. Era, però, una squadra costruita in una certa maniera, per cui se fosse mancata qualche pedina avremmo fatto fatica: e difatti l'anno dopo partirono alcuni uomini-chiave e retrocedemmo per quoziente-reti in Serie B».Pescara e poi Padova, altra tappa importante della carriera.«In Abruzzo non hanno visto il vero Cerilli, per vari motivi. A Padova la prima stagione in C/1, nel 1981/82, non fu un granché. Ma le altre due risultarono molto importanti, in quella della promozione in B mi presi delle belle soddisfazioni e poi commisi un errore al terzo anno perché non avevo un buon rapporto con Rambone. Pilotto mi chiamò per rinnovare il contratto, chiedendomi se fosse il caso di confermare l'allenatore o meno. Da capitano lo invitai a cambiare, il giorno dopo invece appresi dai giornali che Rambone era stato confermato e mi sentii preso in giro. Tornai sotto i Colli Berici».Ultima esperienza in carriera, ancora Vicenza dal 1984 al 1986, ma anche la pagina amara del Totonero...«Vinsi due campionati di fila, poi esplose il calcio-scommesse e pagai io per tutti, con la squalifica di 5 anni. Sono una persona onesta e pulita, non avrei mai potuto comprare o vendere partite, ma sapevo delle cose. Avevo 33 anni, non ero esperto: sollecitai un contratto lungo, per tutelarmi. Me lo accordarono. Quando domandai la fotocopia di quell'accordo, si stizzirono, così rinunciai ad averla. Il documento ovviamente sparì. E presi la squalifica, chiudendo di fatto lì».Veniamo all'esperienza di allenatore.«Ho fatto 4 promozioni, tre dalla Prima Categoria e una dalla Seconda. A Chioggia mi hanno chiamato, al secondo anno ho vinto. Poi sono stato nel settore giovanile del Padova, ancora nei dilettanti a Piove di Sacco, vincendo subito, quindi a Legnaro, dove al secondo anno abbiamo compiuto il salto in Promozione. Ultima squadra il San Pietro in Volta, vincendo la Seconda. Ho fatto un po' di Prima con loro, poi sono venuto via. Da tre anni sono fermo».Che ne pensa del calcio nell'era del Covid-19?«Non lo guardo più. Senza spettatori non è calcio, non mi ispira. Con la gente sugli spalti è una cosa, con nessuno un'altra. Ed è triste, credetemi, tanto triste». --© RIPRODUZIONE RISERVATA