A Prato cento cinesi vogliono isolarsi ma l'Asl li ferma
il casoMario NeriPiù spaventati dal fantasma che li insegue che dalla realtà che si sono lasciati alle spalle, circa cento cinesi di Prato ritornati in settimana dalla Cina avrebbero voluto auto-isolarsi, chiudersi in una quarantena fai-da-te in un albergo o residence. «Abbiamo cercato di chiedere alle istituzioni una mano, al Comune e al Consolato, per poter affittare un posto o degli appartamenti dove riunire in quarantena le persone che sono tornate dalla regione di Wenzhou, isolata a causa dell'epidemia del coronavirus - dice Luigi Yu, segretario dell'associazione economica cinese Wencheng - Molti connazionali, seppure senza sintomi, sono preoccupati di poter incubare il virus e così contagiare i bambini e i familiari rimasti in Italia per il Capodanno cinese, ma ci è stato spiegato che non avevamo l'autorizzazione per farlo ». Yu vive e lavora a Prato e finora si era occupato delle ripercussioni economiche che la chiusura dei voli fra Italia e Cina avrebbero prodotto in città. Da ieri, la comunità gli ha chiesto di fare da mediatore con le autorità locali. Ma niente, la quarantena fai-da-te non serve, hanno risposto dall'Asl. «Così ora le persone che sono tornate ci rimarranno per almeno 15 giorni». Le voci di un isolamento volontario ieri hanno fatto scattare subito le verifiche dell'Asl. «Non sappiamo con esattezza quante persone siano tornate - spiega Renzo Berti, direttore del dipartimento della prevenzione della Asl Toscana e uno dei membri della task force regionale varata qualche giorno fa con l'obiettivo di verificare il percorso dei due cinesi risultati positivi a Roma e passati da Firenze il 27 gennaio -, ma siamo certi che non ci siano i presupposti sanitari per un'iniziativa del genere. Comprendiamo la preoccupazione, forse è dettata dalle misure stringenti adottate in Cina, ma non serve. L'isolamento potrebbe essere indicato solo per chi torna con i sintomi o chi è stato in stretto contatto con un malato in Cina. Ma in quel caso dovrebbero chiamare il 118 e scatterebbe il protocollo». Un residence-quarantena avrebbe solo agitato le acque, addirittura calamitato sulla comunità cinese nuovi episodi di discriminazione e intolleranza. «Se avessero affittato un albergo o un residence - dice Berti - avrebbero dato vita ad una specie di lazzeretto agli ordini della comunità cinese locale. Insomma, avrebbe generato solo un problema di ordine pubblico». Un'ipotesi ieri smentita perfino dal proprietario della struttura. «Non gli avrei ceduto comunque le camere senza un ok delle autorità», ha assicurato all'Asl. «Noi non abbiamo ricevuto richieste di case, immobili o alberghi» dice il sindaco Matteo Biffoni. In fondo, sottolinea, «dal ministero della Salute è arrivata una circolare molto chiara su bambini e ragazzi italo-cinesi: se non hanno sintomi, possono rientrare a scuola». Ma che il clima oscilli fra la paura e l'improvvisazione lo si capisce in serata. «Molti alunni di famiglie cinesi non vengono più mandati a scuola», dicono molti presidi in una riunione convocata da Comune e Asl. Se c'è un epicentro della psicosi, dunque, è concentrato proprio nella Chinatown di Prato, città dove vivono tra i 30 e i 40mila cinesi. «Sono spaventati, i genitori lo fanno per prudenza, perché molti sono tornati da pochi giorni dalle vacanze trascorse in Cina».In fondo, dall'esplosione dell'emergenza sono proprio ristoranti e negozi orientali a subire gli effetti più duri della paura da virus. Lo ammette anche Yu. «Molti, pur di non rientrare a casa, in queste ore si stanno rivolgendo agli ospedali, anche se nessuno finora risulta avere sintomi della malattia».Non solo. «Dopo il no all'albergo, circolano voci secondo le quali qualcuno starebbe pensando di adibire un capannone a questa funzione - dice ancora Berti - Sia chiaro: non solo lo impediremmo, ma picchieremmo duro con chi consente azioni del genere». --© RIPRODUZIONE RISERVATA