Nel Rinascimento di Dossi un eccentrico splendore

di Virginia Baradel Erano gli anni delle corti rinascimentali: dei Medici, dei Montefeltro, dei Gonzaga, degli Estensi. Ogni principe gareggiava in palazzi e ornamenti, in cultura umanistica e collezioni e commissionava cicli decorativi che ne glorificassero doti e casata. Fu così che il principe vescovo di Trento Bernardo Cles, candidato al soglio pontificio pur essendo consigliere dell'Imperatore e amico di Erasmo da Rotterdam, costruì il suo Magno Palazzo come imponente completamento del più antico Castello del Buonconsiglio. Il palazzo principesco venne eretto in un paio d'anni e nel 1531, tra gli innumerevoli lapicidi, orafi, stuccatori, arazzieri, intagliatori e ricamatori, vennero chiamati i pittori Dosso e Battista Dossi, Romanino e Fogolino per eseguire le decorazioni ad affresco. Dosso era il più famoso (pagato il doppio degli altri) e non faticò a entrare nei propositi del principe. Si spiega così la mostra "Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici al Castello del Buonconsiglio" curata da Vincenzo Farinella (con Lia Camerlengo e Francesca de Gramatica). L'esposizione, frutto di ricerche mirate, rientra nel progetto fiorentino "La città degli Uffizi", ovvero la realizzazione di mostre in altri centri italiani con opere degli Uffizi. Un virtuoso insieme di occorrenze consente dunque di godere della pittura di Dosso Dossi, protagonista del '500 padano, attivo per tutta la vita alla corte di Alfonso I d'Este a Ferrara, nonché di fare il punto sul meno famoso ma assai valido fratello Battista. Dosso, che si firmava con un osso dentro una grande D, venne riscoperto da Longhi nel 1927 e poi ampiamente ripreso in "Officina ferrarese", il celebre saggio che fece seguito alla mostra del 1933 sul Rinascimento ferrarese curata da Nino Barbantini, già direttore di Ca' Pesaro nei fervidi anni di Gino Rossi e Arturo Martini. Nato nei pressi di Mirandola, già nel secondo decennio del Cinquecento era il pittore favorito dei duchi di Ferrara, tanto che lasciò la corte in due sole occasioni: la prima al servizio di Eleonora Gonzaga e Francesco Maria della Rovere nella villa di Pesaro, la seconda per l'incarico trentino. Alla corte di Ferrara Dosso ebbe modo di incontrare i massimi artisti del tempo. Raffaello lo conobbe più verosimilmente a Roma essendo il fratello Battista nella bottega di questi. Di Giorgione si appassionò a Venezia e fu fondamentale per le esperienze giovanili e ogniqualvolta il soggetto presentava una macerata interiorità che si riverberava nel paesaggio. In laguna egli apprese anche la suggestione dei paesi nordici, dipinti sullo sfondo delle scene sacre o mitologiche come apparizioni di fantasia, sospesi in una luce irreale e collocati oltre i sipari naturali dalle calde cromie di Giorgione e Tiziano. Nel Palazzo trentino, che mirava a diventare la piccola Roma nelle Alpi, i fratelli Dossi affrescarono 19 ambienti, tra maggiori e minori. Il gioco d'innesto e confronto voluto dal curatore, fa dialogare in modo davvero emozionante, affreschi e dipinti. Prendiamo la celebre tela "Giove pittore di farfalle", già al Kunsthinstoriches di Vienna e ora conservata al Castello di Wawel a Cracovia. Ebbene sul soffitto della Camera del Camin Nero dove è esposta, vi è un riquadro monocromo con Mercurio che esce di corsa da una porta dell'Olimpo, accompagnato da un paio di farfalle, per fermare Virtù che vorrebbe lamentarsi con Giove della concorrenza di Fortuna. Solo alla Virtù spetta d'incoronare i sapienti come appare nel riquadro corrispondente in quel ciclo d'affreschi che glorifica le arti e le virtù. La celebre tela, dipinta qualche anno prima, è perfetta sintesi delle qualità pittoriche e delle invenzioni di Dosso che s'ispira liberamente a testi letterari (in questo caso la quarta delle "Intercenales" di Leon Battista Alberti). Altre sublimi libertà che Dosso si prende avvicinandosi e allontanandosi dai modelli dei maestri, sono ravvisabili nel "Sapiente con libro" che mutua postura da Michelangelo ma ne rovescia l'eroismo dandogli carni e colori padani ben più terreni; così in "Apollo musico e Dafne" che risente della cultura artistica romana (portata a Mantova da Giulio Romano), ma inserita in un gioco d'ombre e di luminescenze così intenso, così romantico, da fondere la passione per Dafne con il divino "furor" della musica, come scrisse Alessandro Ballarin, massimo esperto di Dosso. Ritratti, scene campestri, allegorie completano il quadro di un artista veramente straordinario che sa essere più fiscale di un fiammingo nel ritratto del medico umanista Niccolò Leoniceno, e già pre-caravaggesco nell'ombroso dettato naturalista del San Sebastiano.