Ciak di Olmi in trincea Narra la guerra dei soldati contadini

di Nicolò Menniti Ippolito wASIAGO Per la terza volta Ermanno Olmi sta girando il suo ultimo film. Doveva essere "Centochiodi", girato nel 2007. Doveva essere "Come voglio che sia il mio futuro", il documentario sui giovani presentato nel 2012 a Venezia. Forse sarà "15-18. L'Italia in guerra", il film sulla prima guerra mondiale che da pochi giorni il regista sta girando "sottocasa", come dice lui, ovvero sull'Altopiano di Asiago in cui ha scelto di vivere. E forse non poteva che finire così: sottocasa e con la guerra, lo si capisce bene leggendo le pagine di "L'apocalisse è un lieto fine", la frammentaria autobiografia di Olmi che da pochi giorni è tornata in libreria in edizione economica. Uno dei capitoletti del libro si intitola "La grande guerra sull'Altopiano". Olmi quando l'ha scritta, lo scorso anno, non sapeva del film, ma il film è in realtà già tutto lì, a partire dal soggetto. Tutto comincia da Toni Lunardi, un pastore d'Altopiano, che Olmi conobbe all'epoca in cui girava "I recuperanti". "Toni mato", lo chiamavano in paese, e Olmi lo volle come protagonista e non lo dimenticò più. Per tutta la vita "Toni mato", che aveva 81 anni nel 1966, quando incontrò Olmi, ha spiritualmente accompagnato il regista, che continuamente lo ha citato, come fosse un maestro di vita. Una frase di Toni, «Perché combattere? Finita la guerra, ognuno torna a casa sua», ha ispirato "Cantando dietro i paraventi". Un'altra frase, «La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai», ha accompagnato il regista nel tentativo, cui poi ha rinunciato, di girare "Il sergente nella neve". E anche nel 2012, mentre scriveva ad Asiago la sua autobiografia, l'immagine di Toni continuava a tornare. E allora era inevitabile questo film, le cui riprese sono cominciate dieci giorni fa, ma ora avanzano lentamente, perché il set con le trincee invernali allestito a 1600 metri nei pressi di Cima Larici è irraggiungibile per la neve, mentre quello più in basso, vicino ad Asiago è invaso dal fango. E se si continua così, l'ipotesi di girare tutto in meno di due mesi è fortemente a rischio, anche perché sarà un film completamente notturno, girato in una notte in trincea, tra vento e neve. Un film del tutto di Olmi, anche se il regista operativo – Olmi ha qualche problema con le gambe - è Maurizio Zaccaro, uno dei primi allievi di "Ipotesi cinema", la bottega di Olmi nata a Bassano. Lo strano è che Olmi questo film se lo sia tenuto dentro così a lungo. Nella autobiografia le parole di "Toni mato" risuonano già come battute: «Di qua il prete che ti benedice e di là il carabiniere che se non esci dalla trincea è pronto a spararti»; e poi la follia della guerra: «quell'erba è cresciuta sulla carne umana». Olmi lo ha ripetuto sempre. Toni Lunardi, in quegli anni '60 gli aveva raccontato le storie vere di una guerra, che aveva combattuto portando in perlustrazione soldati e generali. Storie epiche che aveva anche scritto pur essendo quasi analfabeta, aiutandosi con disegnini e ideogrammi, finite poi nella mani di Mario Rigoni Stern. Storie epiche, di poveri, perché Olmi non vuole raccontare la guerra di quei giovani ufficiali cittadini, che pure rispondevano a nomi come Emilio Lussu, Carlo Emilio Gadda, Giani Stuparich. Perché Olmi ce l'ha con la guerra, coi generali, con l'infatuazione della vittoria che catturò anche uomini come suo padre, con il sogno di avventura che alla vigilia di un'altra guerra, la seconda, prese lui stesso. E le pagine finali della sua autobiografia lo dicono bene. Partono da un regalo di Fellini, che aveva sognato Olmi, aveva disegnato il sogno e glielo aveva regalato: quattro bambini che in acqua disinnescano un ordigno. E Olmi lo legge così quel disegno: i cavalieri dell'apocalisse che disinnescano la guerra, "L'apocalisse è un lieto fine".