La banda Carità, terrore a palazzo Giusti

Palazzo Giusti, in via San Francesco, massiccio, cinquecentesco, severo, sotto l'ampio portico ospita un'iscrizione: la Canzone della Nave («Fame, torture, scariche, sibili di staffili, non ci faranno vili: viva la libertà») ricorda un passato nefasto, di eroismo e di sangue perché questa "Villa Triste", una delle più famigerate d'Italia, fra la fine di ottobre e i primi di novembre 1944 diventa la tana della banda del maggiore Mario Carità. «A Palazzo Giusti – scrive Giorgio Bocca nella sua Storia dell'Italia partigiana – si fa uso di droghe, il sangue e le grida dei prigionieri sono anch'essi droga…i picchiatori ebeti bevono e mangiano mentre bastonano». L'alcol e la cocaina elevano a potenza la ferocia dei torturatori, alimentata anche dalla consapevolezza che si avvicina l'ora della resa dei conti. Ma da quale inferno sbuca questa accozzaglia di informatori, spie, assassini, addetti ai rastrellamenti e alle spedizioni punitive? Carità e i suoi vengono da Firenze. La banda si è finanziata con una rapina in banca da 55 milioni di lire e con i beni strappati agli ebrei. Da Firenze il gruppo, al diretto comando dei nazisti, sorta di Spectre italica, passa a Bergantino e poi a Padova su richiesta del questore Menna. Finiscono nella rete operai, professori universitari, madri di famiglia, artigiani: ognuno è portatore di una memoria in cui spicca la sospensione di ogni diritto umano. Tra le vittime delle torture, il professor Egidio Meneghetti, Antonio Zamboni docente al Tito Livio, l'avvocato Sebastiano Giacomelli, il professor Giovanni Apolloni, insegnante al Barbarigo, molto vicino a don Giovanni Nervo, lo scultore Amleto Sartori. A palazzo Giusti viene portato agonizzante, tra le risate di scherno degli aguzzini, il partigiano Otello Pighin (Renato). Il capo, Mario Carità, faccia pesante, occhi spiritati, un ciuffo di capelli bianchi, è uno splendido campione della galleria lombrosiana. I mezzi di persuasione nel salone del palazzo e nei cosiddetti uffici (camere di contenzione) sono calci, pugni, scariche elettriche, unghie strappate. Un altro soggetto meritevole di identikit è Antonio Corradeschi, un bel tenebroso, un gagà, nerovestito sempre intento ad insidiare le prigioniere, cercando di strappare loro qualche confidenza. Corradeschi avrebbe irretito anche una signora della buona borghesia padovana che fu però il principale testimone a carico del suo processo. A lei il bel Tonino avrebbe indirizzato una lettera, nei giorni del suo arresto, piena di amarezza e di risentimento. Corradeschi, con Chiarotto e Falugiani, costituisce il gruppo di fuoco, un trio di assassini. Una delazione permette loro di tendere un agguato mortale, vicino a palazzo Esedra, a Francesco Sabatucci, comandante della Brigata Padova, eroe del Ponte della Priula. Cercano di prenderlo ma Francesco si mette a correre veloce; Corradeschi gli spara con la pistola, gli altri due esplodono raffiche di mitra: Sabatucci si abbatte raggiunto da una trentina di proiettili. Vicino al Santo, vittima di tradimento, viene ucciso Corrado Lubian che ha appena sostituito nel comando Otello Pighin. La storia della banda Carità è un po' come l'Iliade di Omero, non c'è una documentazione scritta. «Carità e i suoi uomini – scrive Taìna Dogo – hanno distrutto ogni prova dei loro misfatti. Difficile anche rintracciare gli atti del processo del settembre 1945». Quando la linea di resistenza tedesca sull'Appennino mostra i segni di profonda usura, Mario Carità si rifugia in un paesino dell'Alpe di Siusi a 30 chilometri da Bolzano. Viene sorpreso da soldati americani mentre fa l'amore in una baita. Prende la pistola, spara, ma viene falciato da raffiche di mitra e la donna che è con lui viene ferita. Corradeschi è fucilato alla schiena al poligono di tiro di Padova; per Chiarotto e Falugiani, la sentenza è l'ergastolo; viene condannata a 16 anni anche la figlia maggiore di Carità. A palazzo Giusti è tornato il silenzio, mentre gli alberi rinsecchiti in giardino hanno ripreso a fiorire. Aldo Comello