L'IDEA DI PARTITO CHE HA RENZI

Quello a cui punta Renzi è un catch all party, un partito pigliatutti, capace di mietere consenso in ceti sociali assai diversi. Il cui motore sia, come si esige nel tempo della democrazia del pubblico, il leader e la fiducia che l'elettorato nutre in lui. Da questo punto di vista, Renzi rappresenta la naturale continuità di quel fenomeno della personalizzazione della politica che, partendo da Berlusconi e passando per Grillo, caratterizza il panorama italiano da almeno due decenni. Un fenomeno che consegna una nuova centralità agli attori individuali, in particolare ai leader, e impone una parallela perdita di peso degli attori collettivi come i partiti. La novità dirompente, facilitata dal sucidio politico della classe dirigente di matrice post-comunista, perennemente in ritardo sui tempi e mai capace di un riformismo radicale, è che il fenomeno tocca per la prima volta un partito che si vuole, o si voleva, collocato a sinistra. Figlio di culture che hanno sempre guardato con diffidenza al primato del capo. Un simile partito, che assomiglia sempre più al Pdr , ovvero al Partito di Renzi, anziché al Pd, è destinato a collocarsi più al centro che a sinistra. Anche per occupare il vuoto generato dalla immobilistica ipoteca berlusconiana sulla destra forzista, non a caso ridotta nei sondaggi sotto il 15 per cento e data per sonoramente sconfitta nelle prossime elezioni regionali. Ma un simile partito è inevitablmente destinato a mutare anche forma. Nel tempo della personalizzazione della politica il partito fondato sugli iscritti e sulle articolazioni territoriali, fortemente in crisi, come mostrano i dati sul tesseramento e le difficoltà dei circoli locali del Pd, lascia spazio al partito degli elettori e a quello fondato sulla comunicazione politica. Non è casuale che oggi Renzi raccolga più consenso: tra quanti partecipano alle primarie anziché tra gli iscritti; tra gli elettori che esprimono un voto d'opinione, sempre più orientato dalla figura del leader, anziché un voto di appartenenza. E che continui a coltivare, nonostante abbia conquistato il Nazareno e Palazzo Chigi, l'immagine del leader outsider. Posizionamento che consente di intercettare l'enorme massa trasversale di elettori in cerca di rappresentanza. Ma Renzi non può, ancora, rinunciare al partito. Nonostante la personalizzazione vada di pari passo con la "presidenzializzazione" della politica, che mette l'accento sulla figura del leader anche a livello istituzionale, siamo ancora nel tempo dei governi che ricevono la fiducia dal Parlamento. Renzi è, però, deciso a fare del Pd un partito a sua immagine e somiglianza. Il Partito di Renzi, appunto. Come emergerà chiaramente anche dall'appuntamento della Leopolda. In un simile scenario i rilievi della sinistra dem, che respinge l'accusa renziana di volere un partito senza disciplina replicando di non accettare una disciplina senza partito e sottolinea l'assenza nel leader di una cultura politica che non si esaurisca nel mero pragmatismo, sembrano quasi una eco lontana. Non solo essa non ha, oggi, un leader che possa insidiare l'arrembante capo. Ma sembra ancorata a un modo di fare politica che il dirompente dinamismo del segretario-premier consegna irrimediabilmente al passato. Renzi ha il vantaggio di teorizzare un modello di partito favorito dalle dinamiche sociali e politiche del tempo, la sua opposizione no. Per questo chi vorrebbe un altro modello di partito, e un altro leader, è consapevole, sebbene non lo ammetta pubblicamente, che un simile esito dipende oggi dal fallimento dell'esperienza renziana o dalla nascita di una nuova forza politica. Alternativa comunque gravida di implicazioni non semplici da affrontare. Renzo Guolo ©RIPRODUZIONE RISERVATA