le mezze verità della guerra

La guerra porta con sé la retorica di guerra. E la retorica è contagiosa. Stravolge la verità o, peggio ancora, diffonde una mezza verità, la cui porzione di menzogna è occultata come la faccia oscura della luna. La retorica non si annida solo nelle parole esplicitamente proferite. Si annida anche in quel che non viene detto, nelle parole tralasciate, in ciò che viene sottaciuto di proposito. La guerra è foriera di propagande e di narrazioni che a volte si sovrappongono alla realtà fino a farla sparire dalla vista degli osservatori più accorti. Aporie e contraddizioni non sono ammesse, in guerra. I lunghi e perniciosi anni del conflitto freddo ci hanno insegnato la lezione. Se abbiamo aborrito il totalitarismo sovietico, non per questo possiamo legittimare il pensiero unico, il maccartismo e la caccia alle streghe che ne seguì. Se oggi aborriamo la guerra di Putin, ciò non ci legittima ad abbracciare ingenuamente il pensiero unico e la sua lingua. La lingua del maccartismo. Rivive ogni volta che ad esempio sentiamo un commentatore semplificare e dire in luogo dell' "esercito russo" o del "governo russo" semplicemente "i Russi". I Russi avanzano. I Russi hanno bombardato. I Russi hanno lanciato un missile. Beata innocenza dei grandi semplificatori. Il governo di Putin e la sua armata non coincidono affatto con il popolo russo. Vi sono infatti molti Russi che detestano il loro governo, molti Russi che pagano per aver osato sfidare il loro proprio governo, molti Russi che lottano per la libertà contro il loro governo. Molti Russi vorrebbero magari lottare contro il proprio governo, ma non ne hanno la forza e sono costretti al silenzio. Semplificare è pericoloso. Per molte ragioni. Ad esempio, si legittimano anche le semplificazioni degli avversari contro di noi: che cosa avremmo dovuto dire noi Italiani, se nel nostro più luminoso passato fossimo stati identificati - come a volte accadde - con i nostri più "luminosi" governi? Inoltre, semplificando si riduce una guerra, dove innocenti muoiono (questo significa guerra) ad una specie di ludica competizione tra nazioni. Come ai mondiali di calcio. Ma dire che i Russi hanno segnato su calcio di rigore e dire che hanno lanciato un missile nel centro di Kiev non è esattamente la stessa cosa. Infine, generalizzando si finisce per compattare il fronte di Putin, il quale trae giovamento da una propaganda in fondo coincidente con la sua, giacché molto gli piacerebbe di identificarsi con tutti i Russi e magari persino con gli Ucraini.Ma la retorica non è fatta solo di parole usate in modo inappropriato. Vi sono anche le frasi mancanti. Nella corale condanna della guerra di Putin da parte delle forze politiche, si dimentica ad esempio di dire che partiti come la Lega, dal suo capocuoco sin ai suoi ultimi tirapiedi nel palazzo e nelle istituzioni (persino in quelle più insospettabili!) ammiravano Putin come un amico adorato e un modello da imitare tanto che, abusando anche noi di un po' di retorica, potremmo dire che il loro motto esplicito "prima gli Italiani" suonava implicitamente così: "prima gli Italiani, ma solo dopo i Russi". E ancora: la manifesta solidarietà ai rifugiati ucraini, che tutti noi condividiamo, occulta la parte del discorso che non è detta. Ossia che la medesima solidarietà non sarebbe stata così coralmente accordata dalle stesse facce che oggi trasudano generosità e buonismo ai rifugiati di altre guerre, a causa del solo colore della pelle, o della religione, o dei costumi. Abbiamo usato la stessa generosità per chi aveva il colore della pelle un po' più marroncino? Siamo davvero un popolo di santi a fronte del demone orientale? O quel demone è anche in noi, pronto a scatenarsi? Non è finita: quando noi, in nome di principi umanitari, offriamo aiuto di ogni sorta all'Ucraina, tralasciamo di dire quel che il Presidente Zelensky ricorda a giorni alterni, ossia di menzionare insieme all'aiuto offerto anche l'aiuto che non abbiamo offerto. L'aiuto che magari avremmo offerto ad un Paese Nato. Di certo più dell'aiuto che avremmo offerto al Tibet o al Nicaragua. O ad altri posti sperduti dove un potere tirannico ammazza vite umane. Di certo anche più di quanto abbiamo mai immaginato di offrire per le vittime dell'ultima illegittima guerra in Iraq. Ma comunque meno di quello che servirebbe. Omettiamo di dire che la questione dei rifornimenti di gas ha fatto tremare le gambe all'Unione europea, che a volte sembra scontare la sua genesi economicistica del carbone e dell'acciaio e dimenticare così che per i Schuman, i Churchill e i Monnet l'unione economica era solo un passo per il raggiungimento di una unione politica e giuridica. Una "Europa del diritto", per usare l'espressione del giurista Paolo Grossi. Un'idea contagiosa, anch'essa, capace di estendersi oltre i suoi confini geografici o politici per farci ricordare adesso, nell'ora del pericolo, che pace e giustizia non sono questioni nazionali, né l'esito del trionfo di una nazione sull'altra (ossia del feroce giuoco tra potenze), ma riguardano invece il genere umano. Contro il quale questa guerra è stata mossa. Al quale ci piace ancora pensare di appartenere. Ma senza retorica. --