Mano tesa dei talebani: no alle vendette Donne al governo rispettando la Sharia

Giordano StabileINVIATO A BEIRUTFinora era noto solo per il suo nome di battaglia, Zabihullah Mujahid, e i comunicati che rivendicavano attacchi e stragi di "invasori". Ieri il portavoce dei Taleban è apparso in conferenza stampa a Kabul. E ha risposto anche alle domande di una giornalista, velata ma non troppo nel suo elegante hijab. Impensabile vent'anni fa. E' il volto nuovo del secondo Emirato islamico dell'Afghanistan, o almeno quello che vuole mostrare. Mujahid ha usato toni moderati, spiegato che i Taleban non vogliono più «guerre civili», ma «legge e ordine», ha precisato che violenze e irruzioni nelle case sono opera di «banditi» e non dei combattenti islamici, orgogliosi di aver cacciato «le truppe straniere» ma anche determinati a far sì che nessuno usi mai più il Paese per organizzare attacchi terroristici. Ha promesso di rispettare «i diritti delle donne» pur in una cornice musulmana e permettere loro di studiare e lavorare «negli ospedali e ovunque siano necessarie». E poi ha annunciato un'amnistia che riguarderà tutti quelli che «hanno collaborato con gli americani» e persino «i soldati che hanno combattuto contro di noi», cioè le odiate forze speciali, e un governo inclusivo: «La guerra è finita, sono tutti perdonati». Mujahid parlava mentre a pochi chilometri, all'aeroporto Hamid Karzai, i giganteschi jet da trasporto americani C-17 continuavano a portar via migliaia di occidentali e afghani in fuga. Attorno allo scalo ci sono oltre tremila soldati americani e la priorità è evitare ogni incidente, anche per conquistare un principio di legittimità a livello internazionale. Sembra questo il primo obiettivo della leadership talebana. Ieri è tornato da Doha, Qatar, il capo politico e numero due del movimento, Abdul Ghani Baradar, 53 anni. Si è diretto non a Kabul ma a Kandahar, roccaforte storica del gruppo jihadista, fondato qui dal mullah Omar, dallo stesso Baradar, e una cinquantina di allievi di una scuola coranica. A Kandahar erano attesi da Quetta, Pakistan, anche i principali esponenti del Consiglio della Shura, l'organo supremo del movimento, e soprattutto il numero uno, l'emiro Haibatullah Akhundzada, 60 anni, prudentissimo perché ha visto il suo predecessore, Akhtar Mansour, fulminato da un drone nel maggio del 2016. Gli Usa hanno dato la caccia anche a lui, fino al 2018, quando sono cominciati i negoziati per il ritiro della Nato. A Kandahar si deciderà la struttura del nuovo Emirato, e il ruolo di Baradar, che ha guadagnato enorme prestigio nella gestione dei negoziati con gli americani. Ha ottenuto il ritiro della Nato al prezzo di sole promesse e permesso all'ala militare, guidata dal figlio del mullah Omar, Mohammad Yaqoob, di prendersi il Paese con uno sforzo minimo, di fronte a un governo e a forze armate in liquefazione senza la protezione occidentale. Adesso a Baradar spetta una carica adeguata. Le capitali occidentali fanno il tifo per lui, ma anche Russia e Cina, due Paesi che ha visitato l'anno scorso e un mese fa. Di certo l'impronta di Baradar si vede in questi primi due giorni al potere. Dopo alcune ore di anarchia, a Kabul è tornata la calma. Non ci sono notizie di abusi massicci. Ieri un gruppo di donne ha protestato con cartelli che chiedevano il rispetto dei loro diritti, davanti ai miliziani in turbante, interdetti ma tranquilli. Uno dei dirigenti arrivati a Kabul, Emullah Samangani, ha parlato subito di «amnistia generale», poi confermata dal portavoce Mujahid. Mujahid ha messo anche alcuni paletti. I diritti delle donne dovranno restare nell'ambito della sharia, «entro la nostra struttura di società». I Taleban sono cambiati, certo, ma erano e restano musulmani, l'ideologia è la stessa, le differenze «riguardano l'esperienza acquisita». Cioè che non vale la pena sfidare gli Stati Uniti apertamente e che bisogna tenere conto della complessità dell'Afghanistan. I pashtun, la base etnica degli «studenti coranici», sono il 45 per cento della popolazione. Accordi sono già stati fatti con gli uzbeki, e lo si è visto con la caduta di Mazar-e-Sharif e la fuga ignominiosa del generale Dostum. Con i tajiki, e un leader del calibro di Abdullah Abdullah le trattative sono in corso. Ma l'atteggiamento più sorprendente è nei confronti della minoranza hazara, sciita. Nel 1988 Al-Qaeda ne massacrò a migliaia con l'appoggio dei Taleban. Oggi una delegazione talebana è andata nel quartiere di Dasht-e-Barchi, già martoriato dagli attacchi suicidi dell'Isis, per partecipare a una preghiera dell'Ashura. Impensabile vent'anni fa, ma anche solo venti giorni fa. --© RIPRODUZIONE RISERVATA