Fuga di massa da Kabul Potere in mano ai taleban Torna l'emirato islamico

Giordano StabileINVIATO A BEIRUTI taleban hanno preso Kabul senza sparare un colpo, o quasi, ma la fuga degli occidentali e dei loro collaboratori, i pochi messi in salvo per adesso, è stato quanto di più caotico si potesse immaginare. Joe Biden aveva promesso che non si sarebbero viste scene "come a Saigon". E' stato peggio. Già la sera di domenica la calca all'aeroporto "Hamid Karzai" cominciava a diventare incontenibile. Ieri mattina le forze anglo-americane a presidio dello scalo hanno perso il controllo. Per far partire gli aerei da trasporto, giganteschi C-17 con dentro fino a 800 persone alla volta, elicotteri d'assalto Apache "spazzavano" la pista a bassa quota, in modo da allontanare la folla. A un certo punto i militari hanno sparato, e almeno otto persone sono rimaste uccise. Un'altra immagine mostra un soldato che urla con il fucile spianato e ha di fronte donne e bambini. La sintesi di un fallimento. Gli ultimi 500 impiegati dell'ambasciata americana hanno lasciato il Paese nella notte fra domenica e ieri. Metà lavoravano per le 17 agenzie di spionaggio statunitensi. Nessuno aveva previsto quello che sarebbe successo dopo il ritiro della Nato, completato di fatto a metà maggio, tre mesi fa. Sono bastate poche settimane di logoramento per sgretolare vent'anni di lavoro, addestramento e investimenti, 150 miliardi di dollari l'anno, tremila in tutto, buttati via. Il primo capoluogo di provincia, Zaranj, è caduto il 6 agosto, in meno di dieci giorni i jihadisti si sono presi il resto. Domenica sera la bandiera bianca arabescata con le scritte coraniche, la shahada, la professione di fede musulmana, sventolava sulla torre del palazzo presidenziale: l'Emirato islamico dell'Afghanistan era risorto, vent'anni dopo, in tempo per celebrare a suo modo l'11 settembre. Poche ore prima l'ex presidente Ashraf Ghani era fuggito. Un convoglio di una dozzina di macchine lo aveva condotta a un eliporto vicino al centro. Quattro auto, secondo la testimonianza di Nikita Ishchenko, portavoce dell'ambasciata russa, «erano piene di dollari». Gli assistenti hanno cercato di caricarli sull'elicottero, diretto poi verso l'Uzbekistan o il Tajikistan, «ma non ci stavano e una parte è finita sulla pista» mentre il mezzo decollava. Nel frattempo una delegazione degli studenti barbuti, una ventina, si presentava davanti al cancello della residenza. Era la presa del potere, come nel 1996, ma questa volta con ampio uso di mezzi di comunicazione. Foto sui social li mostravano rilassati, attorno al grande tavolo usato dal precedente governo. Poi mentre recitavano il Corano nell'ufficio di Ghani. Al-Jazeera, la tivù qatarina già megafono delle primavere arabe, veniva ammessa, un guerrigliero raccontava che era stato «otto anni a Guantanamo». Altri erano stati appena liberati dalla mega prigione nella base di Bagram, a 50 chilometri a Nord della capitale. Forse addirittura cinquemila, comprese decine di Al-Qaeda. Non c'è più un governo amico dell'Occidente a Kabul. Quasi tutte le ambasciate europee e nordamericane sono chiuse, dai camini si leva ancora il fungo dei documenti bruciati, ma non quelle russa e cinese, da dove arrivano messaggi distensivi, di volontà "di collaborare" con i nuovi padroni. La figura di riferimento è Abdul Ghani Baradar, il cofondatore del gruppo assieme al defunto mullah Omar. Sessantatré anni, ha attraversato la turbolenta storia contemporanea dell'Afghanistan. Mujaheddin contro i sovietici a quindici anni, poi schifato dalla guerra civile fra i signori della guerra del 1992-1996, infine a fianco del guerrigliero orbo da un occhio nella prima presa di Kabul. Dopo l'intervento americano del 7 ottobre 2001 fugge con il capo in Pakistan. Una vita nelle retrovie finché nel 2010 Barack Obama, che vuole stroncare la guerriglia e prendere Osama bin Laden, impone ai pachistani di metterlo in carcere. Ci rimane fino al 2018, quando Donald Trump dà al via alle trattative. La prima condizione posta dalla delegazione talebana è la liberazione di Baradar. Lui guida i negoziati, e firma nel febbraio 2020 l'accordo per il ritiro delle truppe Nato. Ed è stato lui il primo volto dell'Emirato ad apparire in tivù. Rassicurante. Umile. Ha ammesso che la vittoria «era inaspettata, un dono di Dio» e che i Taleban avrebbero dovuto lavorare sodo per «servire al meglio la nazione». Per prima cosa hanno stroncato l'anarchia che per alcune ore si era impadronita di Kabul. Bande armate, senza più la polizia nelle strade, taglieggiavano la popolazione, gli sfollati, le auto in fuga verso l'aeroporto, a check-point improvvisati. Sono state liquidate. I guerriglieri sono andati casa per casa a farsi consegnare le armi. Poi hanno cominciato a pattugliare le strade. Fin qui la parte "buona". Anche se i portavoce continuano a ripetere che rispetteranno «le donne e le minoranze», i segnali sono di tutt'altro tenore. I negozi hanno cominciato a ricoprire con una mano di vernice le immagini pubblicitarie con modelle senza velo e truccate. A Kandahar, a Herat, i jihadisti sono andati negli ospedali, nelle banche, uffici, hanno intimato a dottoresse e impiegate di lasciare il lavoro ai colleghi maschi e di «non tornare mai più». A casa, sotto la protezione di un «guardiano di famiglia». Altri racconti parlano di simpatizzanti che aggrediscono le donne per strada al grido di «rimettiti il burqa» o «fra un mese sposerò quattro di voi». Le radio sono state trasformate in "voci della sharia", senza più musica nel palinsesto. Giornalisti e interpreti filo-occidentali, membri delle forze speciali sono ricercati, rischiano l'esecuzione, si nascondono, chi può fugge. A Kabul, pare l'intenzione, i Taleban ci andranno più cauti. Non è la città del 1996, conta quasi cinque milioni di abitanti, una classe media abituata alla libertà nei costumi, a eleggere i propri rappresentanti. Ma di governo "di transizione" non si parla più. L'Emirato ha un emiro, Haibatullah Akhundzada, leader supremo dei Taleban, e un Consiglio della Shura, con base a Quetta in Pakistan. Per adesso i capi resteranno nei loro rifugi, alcuni torneranno da Doha, dove le trattative con un ex governo non hanno più senso. Aspettano che l'evacuazione degli occidentali sia terminata e che il corpo di spedizione anglo-americano incaricato di gestirla se ne vada. I toni moderati di Baradar servono anche a evitare ogni possibile incidente con queste truppe Nato. Poi si vedrà. L'emiro Akhundzada finora ha mantenuto un profilo basso, non si è mai esposto nei negoziati e si è tenuto le mani libere. La sua ideologia è però nota, in perfetta continuità con il mullah Omar, compresa l'alleanza con il capo di Al-Qaeda Ayman al-Zawahiri, che è sempre rimasto sotto la sua protezione fra Pakistan e Afghanistan. Al suo fianco c'è il figlio del mullah Omar, Mohammad Yaqoob, che a maggio ha assunto il comando militare. L'idea di un "Emirato moderato" è tanto favolistica quanto i rapporti sull'efficienza delle truppe afghane, che già gli "Afghanistan Papers" pubblicati dal Washington Post nel 2018 avevano smascherato, un cumulo di menzogne. I cittadini di Kabul lo sanno, e si ammassano attorno all'aeroporto. Gli ambasciatori francese e britannico sono rimasti lì, con pochi collaboratori, a firmare visti. Ma non bastano mai. Tutta l'Europa si dovrà mobilitare per assicurare la fuga e la vita a decine di migliaia di persone. Resta poco tempo. --© RIPRODUZIONE RISERVATA