FILOSOFIA »ANNIVERSARIO
di PIER ALDO ROVATTI La "veridizione" – come ce la propone Michel Foucault soprattutto in alcuni lavori del 1980-1981, e segnatamente nelle lezioni parigine sul governo dei viventi e nei seminari di Lovanio dedicati proprio ai modi di dire il vero – è un insieme articolato di questioni storiche e teoriche che attraversano molti ambiti, dalla psichiatria alle pratiche della giustizia penale, e che fanno centro sullo sviluppo della confessione religiosa, a partire dal primo cristianesimo fino alle istituzioni del dopo-Riforma. Foucault rielabora nel grandioso laboratorio di ricerca degli ultimi anni tutte queste questioni dopo aver lanciato, nelle pagine della Volontà di sapere del 1976, il pesante sasso della sessualità, un sasso che agitò parecchio le acque della cosiddetta cultura della liberazione di allora. Non mi soffermo sulla questione, ricordo solo che essa gettò un ponte tra l'obbligo confessionale di dire la verità su se stessi e l'epoca della psicoanalisi, interpretando la "rivoluzione" freudiana in un senso completamente inabituale, cioè come elaborazione dell'eredità della prescrizione (che risale fino agli antichi) di scandagliare in profondità il proprio animo e di esplicitare questo esercizio in una forma di discorso che assumesse il carattere di racconto veridico di ogni singola soggettività. Con Freud il dire la verità su se stessi diventerebbe decisamente centrale, caratterizzandosi come il racconto della sessualità individuale di ciascuno, una narrazione libera e insieme guidata dall'analista (in cui rivive la figura tradizionale del direttore di coscienza), dotata di una carica antirepressiva e dunque liberatoria. La genealogia foucaultiana metteva in dubbio tale carica liberatoria, e non c'è davvero da stupirsi che abbia prodotto tante reazioni. Dunque la veridizione apre una quantità di domande. Se però leggiamo i materiali di Lovanio a partire dalla lucidissima conferenza inaugurale del 2 aprile 1981, non può sfuggirci che le varie questioni tendono a concentrarsi su un fuoco problematico che riguarda il recente passato ma che ha a che fare soprattutto con la nostra attualità. È un problema irrisolto e che Foucault sembra ritenere non risolvibile. È anche una questione rilanciata al discorso penale: consiste in una sorta di contraddizione, in uno stallo aporetico in cui va a cacciarsi la giustizia quando esige che la confessione dell'accusato di un grave crimine non possa limitarsi alla descrizione di ciò che ha fatto, cioè all'ammissione precisa ed esauriente della colpa di cui è accusato, ma debba raddoppiarsi in un'ulteriore confessione relativa alla natura criminale che egli impersona. Non è più sufficiente che l'accusato dichiari: "Ecco quello che ho fatto". Deve anche dire la verità su se stesso, confessare – attraverso la sua esperienza – "chi è" un criminale, chi è lui in quanto criminale. È come se la volontà di sapere si trasformasse in una "necessità" di sapere. La società attuale ha bisogno di sapere dalla bocca del reo confesso che cosa è un crimine, perché lo si commette, e soprattutto quale è l'identità, la "vera" identità di un criminale. Il discorso penale ammette di non saperlo (e dunque di non sapere, per esempio, che cosa è un individuo "socialmente pericoloso") e chiede a chi è supposto saperlo di produrre questa verità mancante. Quello che normalmente accade è che tale richiesta non ottenga alcuna risposta, ed ecco lo scacco. Il silenzio del criminale può avere molteplici motivazioni di ordine soggettivo: non vuole o non riesce a dirne nulla, non lo sa neppure lui. Ma l'assenza di questo raddoppiamento della confessione vanifica il tentativo del potere giudiziario di far emergere il discorso di veridizione, senza di cui la verità appare inesorabilmente monca, o meglio: insignificante. Quello che ho chiamato il problema emerge in modo documentato soprattutto nell'ultima delle lezioni di Lovanio, dove la cornice – storicamente – si sposta dalla responsabilità individuale al rischio sociale. Il giudice chiede al pregiudicato "Che individuo sei?" nel quadro di un'antropologia criminale imposta dalle esigenze dell'igiene pubblica, quando verso la metà dell'Ottocento – dice Foucault – l'attenzione si sposta dai "grandi crimini" alla sorveglianza complessiva dello spazio urbano e al tentativo di controllare i conflitti sociali. I fenomeni di "degenerescenza" vengono allora studiati attraverso nuove categorie differenziali (come l'esibizionismo, la cleptomania, il sadismo, ecc.) e nella prospettiva di una molteplicità di pericoli virtuali ai danni del "corpo" collettivo. Insomma, questo interesse per le caratteristiche individuali, sia del folle sia del delinquente, questa indagine rivolta sempre di più ai "segreti" nascosti del soggetto impone una sovversione dell'idea tradizionale di confessione, una diversa "ermeneutica del soggetto" e quindi una diversa "tecnica" di decifrazione: da atto semplicemente imputabile, il crimine diventa un atto significativo per la profilassi e la cura di un corpo sociale potenzialmente malato. Non c'è bisogno di evidenziare, tanto è manifesta, la continuità che di qui porta alla scena del nostro presente, nel quale, ormai, la cultura è esplicitamente terapeutica e la parola "medicalizzazione" si disloca dalla medicina in senso stretto alla società nel suo paradigma complessivo, omnes et singulatim come aveva preconizzato Foucault nella sua diagnosi del neoliberalismo. Una significazione che da allora viene accanitamente perseguita (si pensi solo allo sviluppo imponente delle scienze del cervello), ma che, quando poi viene messa alla prova, genera oscillazioni, contraddizioni e paradossi. Foucault adopera una serie di termini ("scheggia", "piaga", "linea di fuga", "breccia") per caratterizzare il fatto che tale nuova veridizione rischia ogni volta di far saltare il sistema penale. Nell'ultima lezione, e proprio nelle battute finali, racconta al pubblico un episodio che prende da un'esperienza di cronaca contemporanea: si tratta del caso di un noto avvocato penalista francese, paladino della soppressione della pena di morte, che sta difendendo un assassino, uno che aveva rapito un bambino e poi lo aveva ucciso. L'assassino si rifiuta di spiegare in qualche modo il proprio gesto, pur avendolo esplicitamente confessato, e allora l'avvocato si rivolge alla corte e dice: "Non vi ha detto nulla sulle ragioni, nulla è risultato dagli atti istruttori né dalle perizie psichiatriche, voi non sapete nulla su di lui. Insomma, potete condannare a morte qualcuno che non conoscete?". Foucault commenta: "Trovo tutto ciò stupefacente, proprio perché è significativo dell'antinomia della nostra ragione penale". ©RIPRODUZIONE RISERVATA