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di Flaminia Bussotti wBERLINO Il conflitto in Ucraina con le mire espansionistiche di Putin, l'accordo sulla pensione a 63 anni appena raggiunto dal governo, l'immigrazione, l'economia che vola, la vittoria del Bayern al campionato di calcio. Altri temi catalizzano l'attenzione dei media tedeschi questi giorni più che le elezioni europee, relegate ai titoli di coda. A pochi giorni dal voto, che per la prima volta potrebbe determinare la nomina del prossimo presidente della Commissione Ue, la partecipazione dei tedeschi è scarsa, nonostante a vincere potrebbe essere proprio un tedesco: Martin Schulz candidato del partito socialdemocratico Spd. Si confronta con il candidato dei conservatori, raggruppati nel Ppe (popolari) a Strasburgo, Jean-Claude Junker, ex premier del Lussemburgo e ex presidente dell'Eurogruppo. Secondo un sondaggio uscito su Spiegel, solo il 21% dei tedeschi mostra interesse per le elezioni. Il 77% no. Il 78% ritiene che debba essere eletto presidente della Commissione il candidato dello schieramento che ha raccolto più voti. Il 13% vorrebbe che a decidere fossero, come finora, i capi di stato e di governo dell'Ue. Le elezioni si svolgono alla spalle della crisi più pesante affrontata dall'Unione che ha generato diffusi sentimenti antieuropei e animosità verso Bruxelles marcando ancor di più il solco che divide il continente in nord e sud. L'idea dei candidati avrebbe proprio lo scopo di reagire alle accuse di un deficit di democrazia e trasparenza nell'Ue e di lanciare un segnale per vincere la frustrazione degli elettori. Che il messaggio arrivi a destinazione non è detto. Il timore di massicce defezioni alle urne, in Germania come altrove, è grande: non a caso diversi capi di stato Ue, incluso Giorgio Napolitano, hanno lanciato un appello ad andare a votare. Come parametro vale l'affluenza alle europee nel 2009 che fu solo del 43%. Se questa volta fosse ancora più bassa, vorrebbe dire che l'esperimento dei candidati non è servito a nulla. E significherebbe anche un punto a favore dei partiti euroscettici e antieuro, di cui comunque si prevede una forte avanzata. In Germania si ha un quadro asimmetrico. Sulla carta il candidato Spd è favorito, ma il partito della cancelliera Angela Merkel è in chiaro vantaggio: la Cdu (Unione cristiano democratica) è infatti indicata attorno al 40% contro il 25% della Spd. I Verdi sono al 10%, la Linke (sinistra) al 9%, i liberali (Fdp) al 4% e l'Alternativa per la Germania (Alternative für Deutschland , AfD) al 5%. Non si esclude però che il partito antieuro dell'economista Bernd Lucke, che predica l'uscita dalla moneta unica non della Germania bensì degli stati in crisi del sud (Grecia, Italia, Portogallo ecc.), faccia il botto e arrivi al 7% e oltre. Nei programmi, Schulz e Junker non si distinguono granché. Entrambi si dicono per un'Europa più trasparente e vicina ai cittadini, ed entrambi mettono l'accento sulla crescita più che sul dogma del rigore finora predicato dalla Germania. La cancelliera non si sbilancia e sembra non gradire l'idea che il prossimo presidente della Commissione sia automaticamente il candidato dello schieramento più forte. Come nel suo stile, non si espone e aspetta in poll position quel che avverrà al voto. Sui manifesti Cdu, intanto, di Junker nemmeno l'ombra: il partito fa campagna con la Merkel che non è affatto candidata (il capolista Cdu è l'ex governatore della Bassa Sassonia, David McAllister). Si sa che la cancelliera non era entusiasta all'idea dei candidati da lanciare nella corsa e avrebbe preferito lasciare le cose come stavano (che a scegliere il presidente della Commissione fossero i capi di governo degli stati membri), ma dal momento che il gruppo socialista ha lanciato nella corsa Schulz, le è toccato abbracciare la candidatura del candidato conservatore Junker. «Non esiste un automatismo» fra la vittoria di uno schieramento e la nomina del presidente della Commissione, ha ripetuto più volte. E non si deciderà a tambur battente: «Ci vorranno sicuramente alcune settimane prima di poter prende le necessarie decisioni», ha detto mettendo le mani avanti. In effetti il Trattato di Lisbona prevede solo che i leader Ue facciano al Parlamento europeo una proposta con maggioranza qualificata di un candidato in grado di raccogliere la maggioranza assoluta e che «si tenga conto» del risultato delle elezioni. Ovvero non c'è nesso strettamente vincolante fra esito delle urne e futuro presidente delle Commissione. Anche l'ex cancelliere Helmut Kohl ha sottolineato che non esiste un automatismo, sottolineando però che il candidato vincitore avrebbe una «forte legittimazione democratica». A differenza della Merkel, Kohl si è speso apertamente per Junker: «Non esiste un candidato migliore di lui». Schulz stesso, di cui tutti ricordano in Europa lo show-down con Silvio Berlusconi nel luglio 2003 a Strasburgo, quando l'allora premier italiano, dopo essere stato da lui pesantemente attaccato, lo offese paragonandolo a un Kapò, sostiene che sarebbe «un attentato alla democrazia europea» se il vincitore non venisse eletto. I commentatori in Germania relativizzano comunque l'importanza del presidente della Commissione: il vincitore del voto avrebbe maggiore legittimità democratica ma non maggiore potere. Dovrà governare come sempre, infatti, con il resto della Commissione i cui componenti vengono decisi dai singoli governi secondo le logiche e gli equilibri dei rispettivi paesi. Il presidente avrebbe quindi le mani legate e al massimo un po' di libertà di manovra nell'assegnazione dei dicasteri. Vada come vada il voto, difficile immaginare comunque che la Merkel, di gran lunga il capo di governo più longevo e di peso nell'Ue, si lasci scippare un diritto di parola nella scelta di colui che andrà ad occupare la carica più importante che c'è in Europa. ©RIPRODUZIONE RISERVATA