L'approdo sulla spiaggia di Ulisse
Si è conclusa l'avventura tra mare e terra dei due professori delle medie, Emilio Rigatti e Mariano Storti, che hanno la passione della "geografia sul campo". Un lunghissimo itinerario percorso a forza di braccia, pagaiando sul kayak, con l'obiettivo di toccare le isole della Dalmazia meridionale. L'ultimo incontro, sulla spiagga di Blace, ha qualcosa di magico. Un medico di Spalato, che ha studiato sei anni alla Sapienza di Roma, racconta ai due viaggiatori che la loro navigazione si è conclusa sul lido dove Ulisse ha costruito la zattera per tornare a Itaca. di EMILIO RIGATTI Meleda, paese di Kosarica - Sobra - 13 luglio Anche ieri se mi sono aggirato per Kosarica reggendo il Vhf come fa il rabdomante con la sua bacchetta, non c'è stato modo di beccare un canale con il bollettino meteorologico. Così ci siamo svegliati prima dell'alba, mentre uscivano le barche da pesca, per approfittare della quiete notturna e navigare con mare calmo. Ma non appena i kayak hanno messo il naso fuori dal porto siamo stati salutati da un vento a raffiche, il che è un brutto segno. I due anziani fratelli pescatori, che calavano le reti, ci hanno messo sul chi vive: «State attenti che rinforza...». Ma noi - unica imprudenza del viaggio - decidiamo di navigare comunque, pur sapendo che la costa non offre sbarchi. Il vento, perfettamente contrario, rinforza fino a ridurre la nostra velocità quasi a zero. Il mare comincia a montare e io sono un po' preoccupato per la mancanza di esperienza di Mariano in fatto di salvataggi. Ogigia/Meleda non è tenera col navigante e mi chiedo da dove sia partito Ulisse con la sua zattera. Qua, di spiagge, non c'è neppure l'ombra. Un piccolo approdo che non avevamo notato l'altro ieri ci offre l'unica possibilità di riparo da qui al porto di Sobra, che dista sette chilometri e mezzo. Non ci penso due volte e dico a Mariano di sbarcare. L'alaggio delle barche stavolta è facile, ma una quantità impressionante di spazzatura ha trasformato l'insenatura in una discarica di materiale plastico. Due belle e minuscole costruzioni in pietra, benché poste in posizione elevata, sono state riempite di schifezze dalle mareggiate invernali. Escrementi freschi di capre e mufloni selvatici mi fanno temere che ci possano essere zecche. Un postaccio, ma non abbiamo scelta: dobbiamo aspettare che il vento cali. Le poche barche che passano qui davanti saltano sulle onde formate e dobbiamo solo ritenerci fortunati di essere al riparo. Per ingannare la lunga attesa esco a giocare con il vento e il mare. La barca salta e procede come una lumaca, ma quando metto la prua verso riva si lancia in delle interminabili ed elettrizzanti surfate. A un tratto, sento che qualcosa cambia nelle condizioni meteo: il Gps rivela che riesco ad avanzare controvento dai due ai quattro chilometri all'ora, segno che sta migliorando. Dobbiamo approfittare del momento favorevole: o tentiamo adesso di raggiungere Sobra o dovremo passare la notte in questo immondezzaio. Dopo cinque minuti siamo prua al vento, ma quei sette chilometri ci faranno sudare per quasi tre ore. L'entrata nel porto di Sobra, con un mare al traverso abbacinante come oro fuso per il sole calante, è spettacolare anche se ci esige la massima attenzione. Lo sbarco sarà piuttosto animato, perché le onde prenderanno le nostre barche facendole girare come fuscelli e sbattendole sul cemento del molo, per fortuna senza danni. Sono giorni che non ci facciamo una doccia e dall'inizio dell'avventura che dormiamo esclusivamente per terra. Facciamo i lord? Ma sì! Affittiamo una stanza da una signora, che ci dà anche un ottima sistemazione per i kayak. Il Vhf riesce a sintonizzarsi sul canale 73, ci informa che anche domani ci sarà vento forte. Optiamo per un'altra sveglia in albis e – carpe diem – ci godiamo la doccia e la notte tra le lenzuola di bucato. 14 luglio Sobra – Saplunara Quando scendiamo in mare il vento soffia alto sul crinale di Meleda scompigliando il bosco, ma l'isola ci ripara ed è solo alla volta del capo meridionale che si farà sentire, spingendo le onde a ingolfarsi e a esplodere con fragore nelle baie aspre di rocce tormentate. I nostri kayak salgono e scendono su questo mantice blu cupo che fa sentire tutta la sua forza, e veniamo ripagati con emozioni indimenticabili per le fatiche della pagaiata. Con qualche tuffo al cuore per alcune botte d'acqua e vento riusciamo a raggiungere un'insenatura sabbiosa, quieta come un bicchier d'acqua. Un cartello c'informa che siamo a Blace, una delle poche spiagge di sabbia della Croazia. Saplunara, che raggiungiamo a piedi, è un paese piccolo ma disordinato, a un paio di chilometri da dove siamo sbarcati. Avevamo proprio bisogno di muovere un po' le gambe. È composto per lo più da case moderne e anonime, ma in compenso si affaccia su una baia di un bel blu carico, contornata da rocce abbacinanti. Alla bottega del paese un caro e boccheggiante internet ci permette di dare un'occhiata alla posta e – ahimè - al meteo: il vento non mollerà per i prossimi giorni, raggiungerà i cinquanta nodi e ce l'avremmo pure contro. Vedo le facce dei miei istruttori del CKF che mi dicono: «Rigatti, non pensarci nemmeno!». Ragusa, proprio lì davanti a noi, non la raggiungeremo: ed è una buona notizia, perché questo mi obbligherà a ritornare, prima o poi. La notizia cattiva è che domani alle sei dovrò prendere l'aliscafo per Ragusa, per poi andare a recuperare l'auto a Spalato in bus, perché Mariano ha dimenticato a casa la patente, Dio lo benedica. Più tardi, alla spiaggia di Blace dove decidiamo di mettere il campo, vado a caccia d'immagini sulla distesa di rocce che sembra quasi una candida colata lavica, poi trovo una conca comoda e riparata dal vento, apro lo zaino e mi metto a scrivere e a prendere sole. Ad un certo momento sento delle voci e faccio il gesto di rimettermi il costume, quando un angioletto nudo sbuca da dietro un masso. Non credo ai miei occhi: è Frantiscek, seguito dal fratellino e dalla mamma, che avevo incontrato a Zuljana giorni fa. Restiamo tutti e quattro a bocca aperta, pervasi dal sotterraneo entusiasmo che scaturisce dalle coincidenze che sembrano magiche. È una buona occasione per presentarci – non lo avevamo fatto - e per scambiarci le mail. Ci avviamo verso la spiaggia e il marito di Renata, la bella maratoneta boema, ci viene incontro. Resto senza fiato vedendo che trascina le gambe, non riesco a capire se per una poliomielite o per i postumi di un incidente. La cosa mi fa una strana impressione: la moglie maratoneta, i bambini che sono due grilli e lui che si trascina a fatica sulla sabbia. Ci salutiamo e li guardo allontanarsi, e mi sembra l'ultima scena di questo film nautico. Ma non è l'ultima. Un tale, forse un bagnino o un operaio del Comune, sta mettendo in un sacco i rifiuti che va raccattando lungo la battigia. Io adocchio una ciabatta e un pallone sgonfiato, mi avvicino e li infilo nel sacco. Ci scambiamo un sorriso e un saluto. Mariano e io iniziamo a dargli una mano e, dopo un breve scambio di battute in croato, quello inizia a parlare un italiano onorevolissimo, se non proprio fluente. È un medico di Spalato in vacanza e ha studiato per sei anni alla Sapienza, a Roma. Per una qualche ragione il nostro viaggio lo accende d'entusiasmo. Sui due piedi ci invita a casa sua a dormire, dove ci presenta la moglie e ci mette a disposizione il portico per sistemare i kayak. Li raggiungeremo più tardi, dopo una cena squisita nella trattoria del paese (da Franka, a conduzione familiare-dinastica, con vista cinque stelle, pesce freschissimo e prezzi modici, se mi si consente lo spot) e capiremo perché lui e sua moglie si sono illuminati per le nostre storie. "Sapete che avete concluso la navigazione sul lido dove Ulisse ha costruito la zattera per tornare a Itaca?" Fedor e Liljana sono tifosi accaniti di questa versione della geografia omerica e addirittura mi regalano un libro di un giornalista croato sull'argomento. Odissea alla mano, vi si dimostra che il nostro ultimo sbarco è proprio il luogo mitico della partenza dell'Eroe per Itaca. Ci fanno vedere un cartello che stanno preparando con grande cura per sistemarlo all'ingresso della spiaggia. C'è scritto: «Ulisse e Calipso, o viaggiatore, ti hanno lasciato questa splendida baia perché tu possa continuare a goderne. Lasciala, per favore, così come te l'hanno lasciata loro». Non nascondo che questo gesto di civiltà omerica mi commuove. E a letto, più tardi - rivedendo le tappe di questo viaggio da bucanieri del turismo, scomodo, entusiasmante e che mi ha asciugato e salato come un'acciuga - non posso smettere di pensare che una delle prossime rotte della mia odissea personale non può che essere questa: da Meleda ad Itaca in kayak. Il tarlo comincia a lavorare, l'inverno che arriverà sarà lungo e mi darà tempo di pensarci. Ma intanto, godiamoci la digestione di questa navigazione indimenticabile appena conclusa. Perché, come si dice in Colombia, "nadie me quita lo bailao". E cioè: nessuno mi può togliere i balli che ho ballato. (5 - Fine. Le altre puntate sono uscite il 20, 21, 22 e 23 agosto) ©RIPRODUZIONE RISERVATA