L'INTERVISTA INEDITA
di Roberto Bertinetti «Sono l'ultimo triestino vivo ad avere conosciuto Joyce e Svevo quando ero ragazzo», rivela con orgoglio Carolus L. Cergoly a Renato Minore nell'intervista inedita inclusa in "La promessa della notte" (Donzelli, 226 pagine, 25 euro), il volume in cui il critico letterario del "Messaggero" di Roma riunisce le conversazioni con alcuni tra i maggiori poeti italiani del '900. Nel libro parlano, tra gli altri, Alda Merini, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Mario Luzi e Andrea Zanzotto, recentemente scomparso. L'incontro tra Cergoly e Minore risale alla seconda metà degli anni '80, e prende avvio dal ricordo di Joyce. «Lui già lo conosceva di nome: era l'insegnante inglese alla moda di cui tutti parlavano – annota Minore – Un giorno Joyce si fermò a parlare con il precettore che seguiva come un'ombra il contino Carolus: "Ma è un tuo parente 'sto mulo?". "No, è un mio allievo". Finirono in osteria. Il discorso cadde sulla scuola: "Ma lo sai – disse il precettore – che 'sto mulo fa un giornaletto scolastico con altri ragazzi della sua età?". Si chiamava "Argento vivo", tirava 15 copie. E Joyce, forse già un po' brillo, fu pronto a rispondere: "Gli auguro di diventare direttore del Time". Nella sua vita Cergoly ha anche diretto un giornale. Non il Time, ma Il Corriere di Trieste, nel dopoguerra. Qualcuno lo ha accusato di filoslavismo. Ma il problema era diverso: "Non eravamo filoslavi, tutt'altro. Semplicemente ragionavamo così: questi disgraziati di sloveni fino al '45 non hanno potuto usare la loro lingua. I fascisti gli bruciavano le case. Ora avevano diritto a parlare nella lingua dei loro affetti"». Proprio a Joyce pensò Cergoly quando, ancora adolescente, compose un volume di versi. «Decisi di spedirglielo e lui rispose da Parigi sempre al precettore: "Ho letto quelle poesie. Ma lo sai che quel mulo è davvero muscoloso!". Svevo, al contrario, non lesse mai nulla di lui, d'altro canto leggeva poco di tutti, forse non lesse neppure "Le occasioni" che Montale, il suo scopritore italiano, gli aveva spedito con trepidazione». Cergoly però lo ricorda benissimo, seduto al caffè Garibaldi, circondato da tante persone. Lui era un giovanottino e curiosava volentieri. Lo rispettavano, conoscevano il suo valore? «Lo prendevano tutti sottogamba e anche apertamente in giro, con battutine, con il silenzio. A volte, quando lui non c'era, spettegolavano: "Pensa un po' questo povero Schmitz…"». Il colloquio scivola poi verso "Latitudine nord", il libro del 1980 nel quale Cergoly riunì i suoi versi, sino a quel momento quasi clandestini. In quell'occasione ci si accorse che Cergoly non era solo il testimone della Mitteleuropa, vista dalla parte di Trieste, che aveva esordito nel 1979, a 71 anni con "Il complesso dell'Imperatore". Accanto al narratore e al memorialista, sottolinea il critico, c'era il poeta con una vena aristocratica e popolare, tragica e sorridente. Il poeta di Trieste, una Trieste teatro di una memoria che tutto trasfigura col soccorso di un sorridente erotismo e di una superiore, aristocratica tolleranza: «Hohò Trieste/Del sì del da del ja/ Tre spade de tormenti/ Tre strade tutte incontri/ O Trieste/ Piazze contrade androne/ Piere del Carso/ Acqua de marina/ Tutte t'ingrazia/ Mettile in vetrina/ E mi insempià/ Col naso contro vetro/ Vardo e me godo/ Le bellezze tue […]. O Trieste/ Caro viso/ Adorabile volto/ Inferno e paradiso/ Mio albero cressù/ Dentro de mi». E, con la città, ecco un sentimento costante, la «triestinità» come qualcosa di perennemente in fuga, affidato a certe deliziose figure di donna, leggere e carnali a un tempo, che hanno la forza di strane apparizioni su un sipario ingannevole e tremulo. Un uomo, Cergoly, che (a detta di Andrea Zanzotto) mette tranquillamente in primo piano «donne vino e canto», con un sottile gusto della caricatura. Sul rapporto tra lingua dialetto Cergoly ha idee assai nette. «Io sono anche poeta in lingua. A un certo punto mi è sembrato più naturale, più giusto scrivere in dialetto. Le situazioni, i personaggi uscivano più netti, più veri. Il dialetto permette un'identificazione profonda con l'anima e i sentimenti di questa mia gente, permette la massima rappresentatività, storica e umana». E quando Minore gli chiede di riflettere sui rischi del dialetto replica, deciso: «Li conosco bene. E ho cercato di superarli. Vede, quella roba che appare come un aspetto antico e fatiscente, della donna che espone le lenzuola: tutto questo non esiste più. Ma già ai tempi del Giotti non esisteva più: era un'operazione di pura archeologia, quasi inutile. Io ho sempre cercato di superare quel modo di essere rispetto alla città. Se si scrive "arbori", che razza di parola è questa, ha mai sentito usarla? In realtà io mi sento molto più vicino a Trilussa, che scriveva in romanesco, a Belli che scriveva nella stessa lingua, ma rischiava la pelle. E Giotti che rischiava? Un bel nulla. Era molto manierato, molto artefatto. Ha scritto cose anche belle, non lo nego. Ma quel suo mondo non c'è più e non c'era neppure quando lui arbitrariamente decise che esisteva ancora. Non si scrive così in dialetto, le conseguenze si rischia di pagarle con la rappresentazione di un mondo falso, buono per tutti gli usi. Cioè per nessuno». La conversazione scivola poi inevitabilmente su Saba: «Un grandissimo poeta che forse deve essere ancora conosciuto per quello che vale», precisa Cergoly. Che aggiunge: «Circolano su di lui idee false, approssimate: con la sua stessa poesia mi sembra che dobbiamo fare i conti. È un miracolo essere così trasparenti, usare la più antica rima del mondo, amore e cuore… Ma come faccio io a parlare criticamente di Saba? Io l'ho conosciuto molto bene, l'ho frequentato». All'inizio, spiega, non c'è il poeta, ma soltanto un certo signor Poli, fa la pubblicità per un cinema triestino, «l'Ideal Politeama» che è di un suo parente. Scrive su un grande foglio versi promozionali per i film che saranno proiettati in futuro. «Mi ricordo – dice Cergoly – alcuni versi: "La tigre sacra/ vien da lontano/ fosche avventure/ drammi d'amor". Non sono male: chissà a quale pellicola d'avventura alludono?». E il poeta Saba non c'è neppure dopo, quando lui frequenta la famosa libreria d'antiquario, dove c'è l'altrettanto famoso Carletto. Un giorno Cergoly vede ben esposto il "Canzoniere". Si incuriosisce, lo vuole comprare. Saba lo guarda con sospetto: "vuole proprio quello? Sì, proprio quello". "Ma è poesia!". "Appunto per questo lo voglio". No, conclude Saba, «'sto libro non lo vendo. Lo tengo per me perché xe bel». E non c'è modo di farlo desistere. ©RIPRODUZIONE RISERVATA