Pagaiando tra i delfini dal golfo di Panzano fino al porto di Trieste

di EMILIO RIGATTI Musetto, vino, verze, salami sono prodotti che, si sa, sono di casa in Bisiaccaria. Ma se diciamo "delfini" la bestia non quadra. O almeno sembra non quadrare. Ero partito da mezz'ora a bordo del mio kayak in direzione Trieste, il porto di Monfalcone era ormai alle mie spalle e mi trovavo nell'ampio bacino che dà sul golfo di Panzano, quando una pinna nera ha cominciato a girare attorno al mio natante, come nei cartoni animati di Braccio di Ferro e Topolino. L'apparizione mi ha causato un doppio straniamento. Prima uno coronarico, superato dopo un veloce ripasso mentale delle foto postate sul forum del CKF (Canoa Kayak Friuli) da amici di lungo corso che si erano già trovati a pochi metri dai cetacei. No, non è uno squalo, mi dico, e comunque da noi non ce ne sono di pericolosi. Certo, è un delfino. L'altro straniamento è stato di tipo geografico culturale: delfini in Bisiaccaria? E invece sì: sotto la torre ad anelli rossi della centrale termoelettrica, proprio nel posto meno ecologico della zona, i delfini sono di casa. Ma questo l'ho saputo dopo la fine di questa breve navigazione. Ho invidiato Pietro Spirito quando mi ha raccontato del suo incontro con una megattera mentre faceva immersioni al largo di Grado. E quindi posso solo immaginare un'emozione moltiplicata mille rispetto a quella provata da me. "Parva, sed apta mihi": insomma, piccolo batticuore ma mi accontento, sperando che un giorno la megattera sbuffi vicino al mio Coaster, con cento watt di potenza sonora in più rispetto al soffio del piccolo cetaceo che mi ha fatto compagnia per cinque minuti, avvicinandosi senza paura al furlan fatto marinaio. Poi è apparso il castello di Duino e l'acquastrada incantevole verso Trieste, smerigliata da una sottile bruma fredda. Ma per tutto il giorno ho lanciato sguardi a babordo e a tribordo, sperando di ritrovare la pinna amica solcare la mia stessa rotta. Il freddo di febbraio tiene lontani dal mare i piccoli mezzi a motore e il golfo è popolato da poche vele. Silenzio, dunque. Ma in questa stagione, in compenso, migliaia di uccelli solcano cielo e mare in tutte le direzioni. Molti gli avvistamenti di germani reali, sempre in coppia, di oche dal collo rosso, di oche russe, di gru eleganti e uguali al disegno che illustrava "Chichibìo e la gru" nel mio libro delle medie. Sotto il castello, il volo teso ed elegante di una decina di cigni decolla rumorosamente dall'acqua. Mi dirigo verso gli speroni carsici da cui svetta il maniero dei Torre Tasso. Alcuni sono candidi, altri ossidati dal tempo, e sfiorare la roccia, ripercorrendo questo sentiero Rilke degli acquanauti, fino a oggi non mi ha stancato. Ad ogni variazione del vento e dei raggi solari cambiano ombre, luci, riflessi e per me, omo de tera, lo stare come un sughero su questo mare azzurro ha aperto nuove rotte emotive, ancora tutte da esplorare. Per esempio, incontrare un amico al bar è bello. Ma trovarne cinque che si avvicinano al ritmo regolare delle pagaie groenlandesi - sottili come ali di libellula - è una cosa che mi mancava. Jan, Beatrix, Capo Horn, Bepomarangon e Manuel - sono i nomi-maschera che ci siamo dati per rispettare le regole del forum del CKF, ognuno seguendo le sue personali fantasie di travestimento - sono in uscita e si avvicinano a Starbuck, cioè allo scrivente. Manca il Presidente ("Icemind", giovane mente di ghiaccio, ma tenero come una mentina), che oggi ha le sue rogne con la casa nuova ed altre varie ed eventuali. Insomma, non ha potuto unirsi alle "Sqassakay", acrostico che sta per "Squadre d'Assalto Kayakkizzate", esperte unicamente in assalti a cestini delle merende e a eventuali fritolini e griglie che si possono incontrare durante gli sbarchi. A ipnotizzarci sempre sono le rocce a picco. Mi rendo conto della loro bellezza studiando a casa le foto che scatto ogni volta: non c'è solo la Dama Bianca, ci sono rettili, giganti, squali con la bocca aperta. Sono come le profezie del Popul Vuh o di Nostradamus: ognuno le interpreta in silenzio come vuole. Si possono fare solo previsioni sul presente: e sempre sono ottime. Ma anche, parzialmente, sul futuro: qui nessuno potrà mai costruire nulla. Duole la grande cava romana di Sistiana. Sfregiata - e siamo solo all'inizio - dai trasformatori instancabili del pianeta: sorgeranno le "villette" e temo che il passo sarà riservato solo ai "proprietari" e che noi, che l'amavamo così, sognandoci un concerto di Bono o dei Pink Floyd echeggiare tra le sue pareti piene di duemila e di cenoventi milioni di anni, dovremo raccontarla ai nipoti, mostrando loro le foto: ecco, caro, com'era, ci passavamo per andare a prendere il sole nudi, c'era solo il rumore della bora, non c'erano macchine né pizzerie. La cava era troppo grande e troppo bella per non pensare di spremerla come un limone, per vederne sgocciolare milioni di euro, o euri che dir si voglia. Segue la mole spaziale dell'albergo Europa e poi, finalmente, solo villette e baracchette di chi ce l'ha fatta a piantare le unghie sulla costa. Nei loro occhi il mare blu, nei nostri l'opera somma degli archigeometri. Pagaiamo, suvvia, che i cubetti di zucchero di Miramare si avvicinano e addolciscono il cuore. Penso che si potrebbe trasformare in uno splendido centro commerciale: "Discount Massimiliano d'Asburgo" suona bene. Sbarchiamo dopo Canovella e dai gavoni saltano fuori le merende. Al kayakkista, da quanto ho capito in questi otto mesi di marineria, fin che è in mare poco gli cale del cibo: pizzette fredde, cioccolate della coop, arance, mele e banane, panini, un lussuosissimo salame di casa, che magari si mangia tra un biscotto e la frutta. Tè o caffè caldo, quello sì che ci vuole, anche se il sole ha portato la temperatura a livelli quasi primaverili. Fin che si è in rotta il cibo migliore si mangia con gli occhi e si respira con l'aria salata. Ho lasciato gli amici che hanno fatto dietrofront, mentre io sono sotto il faro di Berlam, oggi in tiro ottico con "ciapi del corcali" affamati. Uno ha nel becco un granchio. Estraggo la digitale e immortalo la sua morte: sic transit... L'arrivo a Trieste è cento cose, e ognuna è per la prima volta: i riflessi da tessuto Madras dei bagni di Barcola e che non avevo mai visto dal mare, la mole rugginosa della gru Ursus, splendida e decadente, i magazzini della stazione e del porto, una canoa e una petroliera che si scambiano le silhouette sul filo del tramonto. Al molo settimo c'è folla al passeggio serale. Il kayak incuriosisce e ben due persone si rivolgono a me in inglese. «Sorry...». «Guardi che sono italiano». «Ah...». «Vuole che sia venuto dall'Inghilterra con questo?» chiedo suscitando l'ilarità del gruppo di curiosi. Al secondo anglofilo che mi chiede «Where do you come from?» rispondo laconicamente «de Monfalcon». Tre ragazzi, in testa di molo, sono intenti a un narghilè e al loro tramonto cannabinolico, tranquilli come fossero a Goa. «Sono della questura!» grido passando loro davanti, ma dalle loro sganasciate capisco che non mi hanno creduto. Bassa dura, oggi. A Ponterosso non si sbarca, alle sartine di bronzo in Piazza Unità neanche l'Uomo Ragno, e ho paura che mi tocchi restar tre ore a magnar peoci fino a che la marea torni a salire. «Vai alla Società Triestina della Vela» mi grida Andrea Guerra, un giovane che ho conosciuto il dieci gennaio scorso navigando nella nebbia della laguna di Grado, «lì sono gentili». Ma guarda, trovare Andrea per la seconda volta qui, da non credere: e non credetemi, se volete. Alla STV sono gentilissimi e l'unico che mi considera un intruso sono io. «La vardi, lì la sbarca benon, prego... La vol lassar el kayak? Ghe lo tegno senza problemi. Sì, el bar el xè per i soci, ma lei, vestì come che la xè, nissun ghe disi niente». E così il sior Fabio mi prepara un ottimo caffè, tiro fuori il libro che sto leggendo ("Eroi Viaggiatori", uno a caso...) e tra il tramonto e le migrazioni degli Euboici nell' VIII secolo avanti cristo chiudo il breve viaggio, è il caso di dirlo, in Gloria con la g maiuscola. ©RIPRODUZIONE RISERVATA