Senza Titolo

di EMILIO RIGATTI


È un'altra luce quella in cui naviga Venezia stamattina, ne disegna i palazzi con chiarezza da puntasecca. A ogni luce una nuova città. Sì, bisognerebbe andare a caccia di illuminazioni e ore diverse, come entomologi delle pietre e degli scorci. I veneziani che si affrettano verso il lavoro o le massaie a far la spesa gettano sguardi curiosi e rapidi all'imbarco e proseguono. La scalinata è scivolosa e Chicca mi dà una mano ad entrare nel kayak. A Venezia ci starei ancora e dico alla mia ospite che un giorno o l'altro ripiombo qui col mio natante, per seguire il fantasma di Giacomo Casanova, scivolando in silenziose gondole verso i suoi appuntamenti galanti nella città che, in fatto di costumi, era di una libertà – certo, intrisa di formalità - che neanche ai tempi dell'amore libero ci sarebbe più stata. Intanto, adesso andiamo a caccia dell'uscita sul Canale della Giudecca.
Di mattina la città lagunare è decisamente animata: taxi, gondole, tope, vaporetti rendono i canali dei toboga salati. Ma a preoccuparmi è la traversata del Canale della Giudecca, sempre trafficato e, mi dice Chicca, pure molto agitato. Dei ragazzotti in motoscafo a cui chiedo un'informazione mi dicono: «
Ti vol passar ea Giudeca co' queo? Vara che fasso fadiga mi co' sto trabicoeo...». Dannazione se avevano ragione. Già nello stretto canale d'uscita si sente la verve del mare e quando mi affaccio a quello della Giudecca mi trovo davanti una manifestazione di onde incrociate, frutto di correnti e vento ma anche dell'intenso traffico marittimo. Non ci penso neppure un attimo e mi butto come si fa al mare quando l'acqua è fredda e non si vuol patire a lungo. La prua di Starbuck salta da una cresta all'altra, il rodeo è divertente e constato che il diavolo era più brutto quando me ne parlavano che adesso che lo vedo.
In poche pagaiate il Capo Horn dei pivelli è superato. Giro attorno all'isola della spazzatura, aureolata da un putiferio di gabbiani, e punto su Fusina, dritta davanti a me. Insomma, dritta più o meno, perché non so esattamente dove siano le foci del Brenta. Il vento al traverso da sudovest bilancia un temporale a nordest: so che se mi cogliesse a metà traversata - son pur sempre quasi sei chilometri - me la vedrei brutta. Ma non credo di aver scelta, così affronto il mare che mi investe di traverso e avanzo scarrocciando. Il temporale lo avevano messo lì solo per rovinarmi la traversata, perché in tutto il giorno non si farà più vedere.
L'installazione metallica di Marghera ha un suo fascino futurista vista dall'acqua, coi riflessi argentei zigrinati dalla brezza che raddoppiano la missilistica traiettoria del gasdotto. Mi avvicino all'isolotto di San Giorgio in Alga, circondato da rosse mura corrose: un buco tra i mattoni lascia uscire i tentacoli di un albero secco, una selva malata deborda da quello che fu un monastero benedettino, fucina di due papi. Bella anche così, come rovina. Quando avvisto delle roulotte capisco di essere sulla rotta giusta, quella del campeggio. Imbocco il fiume Brenta e poco dopo la prima conca, porta o chiusa che dir si voglia, raschia rumorosamente la sua voce metallica e mi lascia entrare, assieme a quello che sembra un magnate russo su un supermotoscafo dotato di modella d'ordinanza ad abbrustolirsi in coperta. Nessuno dei due equipaggi, lo si capisce dall'incrocio di sguardi, invidia l'altro. Strane globalizzazioni.
Il fiume va per un po' senza l'assillo del rumore delle macchine, tra silenzi e alberi. Appare nel suo stanco splendore la Malcontenta, dove si dice che i padroni attuali non abbiano installato la luce elettrica. Solo candele. Gli affreschi dello Zelotti alla luce tremula del fuoco... Magari un giorno, chissà...
La strada, quella che ha snaturato la facciata acquatica di tante ville, appare non molto dopo col suo rumore fastidioso. Sfilano le ville Tito, Valmarana, Querini Stampalia, la lunga e affaticata Villa Velluti, con le sue malte variegate dai grigi dei secoli. Il paesaggio palladiano che le accoglieva è infranto, sminuzzato come una gran parte del paesaggio veneto, che conosco per averlo percorso in bici in lungo e in largo, schivando camion e zone industriali.
Molti giardini, come quello della Barbariga, sono difesi da reti metalliche che non evocano certo le frizzanti atmosfere goldoniane della villeggiatura. Dopo la conca di Mira mi aspettano quella di Dolo, poi quella di Stra, il breve salto di Noventa: e poi a casa dalla mamma ignara. Calcolo: le nove di sera. Invece a Dolo dal gabbiotto della chiusa non risponde nessuno. Spiffero i polmoni nel mio fischietto di salvataggio, ma niente. «Ciò, toso!» grido a un ragazzino in bici che dapprima non capisce da dove arrivi la mia voce «vai a vedere se c'è qualcuno in quella casetta, per favore?». Poi è la volta di due indiani, di un paio di signore, di altri ragazzini. Una piccola folla si forma e si disfa a ogni richiamo, finché una mamma con la bambina sul manubrio della bici s'adopera a catturare quella che scopro essere una manovratrice. Tante scuse che non riportano indietro le lancette del mio orologio, e l'affannosa pagaiata verso Stra si conclude con la conca più chiusa di un'ostrica. Non ho neppure visto Villa Pisani, impegnato com'ero nella mia olimpiade autistica. Gianni Gallo, il compagno di scuola con cui ebbi la mia prima avventura di kayak, abita a Dolo. Gli telefono. «Janos, così e così e colà... Hai uno stenditoio per il mio sacco a pelo?». Certo, e la serata passa nei racconti con lui e suo figlio Giuseppe, a cui attacco la peste benefica del kayak con le mie avventure appena trascorse. Prima di addormentarmi spedisco una mail di aggiornamento agli amici del CKF, il club di navigatori solitari a cui appartengo. Devo anche a loro un pezzetto di questo viaggio: la sicurezza in navigazione.
Parto alle dieci, aiutato da Giuseppe, che fotografa la partenza. Mia moglie è già in viaggio verso Padova con Raul Lovisoni, musicista e collega di scuola, che riporteranno indietro me e Starbuck. Stavolta mi degusto i riflessi di Villa Pisani, sporcati ogni tanto dal passaggio di qualche camion. Passo la conca di Stra sotto lo sguardo di Raul e Rosa, che mi hanno raggiunto, e pure sotto i raggi impietosi di un sole verticale che non regala ombre.
Padova è uno dei luoghi della mia vita: ci ho vissuto dai tre ai ventinove anni e mia mamma e due fratelli sono ancora lì. Quando entro in città m'imbatto nel poderoso bastione medievale degli Ognissanti. Dall'altra parte voci infantili, come quando ero piccolo. Era il mio patronato, lì ho fatto dottrina, comunione e cresima. Noi bambini ci avventuravamo nei proibitissimi camminamenti delle mura, sognando tesori e rinvenimenti di armi cavalleresche. Pochi colpi di pagaia e passo sotto la "Luzzato Dina", la mia scuola elementare, anch'essa costruita su un bastione sull'acqua. È ancora lì, è ancora scuola. Davanti alla "Luzzato" c'è la palazzina dove abitavo. Ricordo della crisi di pianto che mi colse quando la maestra ci diede il compito: "Il percorso da casa mia a scuola". Venti metri, meno. Feci il tema e magari fu proprio quella prova suprema a dischiudermi le potenzialità della scrittura, del viaggio delle lettere. Mi piacerebbe leggerlo, e tanto. La maestra Vianello, ancora vivace e in salute, magari ce l'ha.
Mia madre è sul ponte di Porta Portello. Non sa niente e non ha capito bene perché Rosa sia capitata a Padova all'improvviso. «Vieni, Egle - le ha detto, - facciamo due passi fino al ponte» che è a meno di cento metri da dove vive. Io sbuco da sotto le volte di mattoni e le dico, col tono più naturale del mondo: «Mamma, mi fai un caffè per favore?». La mamma spignatta in cucina biascicando diagnosi sul figlio matto, ma in fondo è contentissima. Bevo il caffè più buono del mondo. Salgo in auto pieno d'immagini, del silenzio delle lagune e dei canali. È stata una delle cose più belle che abbia mai fatto e so che ci vorrà del tempo per distillare questi cinque giorni. È stato un viaggio di quelli giusti, come quello a Istanbul in bici. Di quelli che cominciano a fermentare dopo il ritorno.
(4 - fine. Le altre puntate sono state pubblicate il 12, 19 e 26 agosto)
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