Senza Titolo
di EMILIO RIGATTI
Acqua come Acquileia, che scrivo con la c, eresia ortografica voluta. Affinché il suo nome sciaguatti acquatico in questo quatto querular d'acqua davanti al municipio del paese friulano. Fanno bene a mantenere quell'inutile "c": per rimarcare l'eccezionalità di Acqua. Dunque: in acqua, Starbuck. Mi infilo nel kayak come da manuale: remo appoggiato allo scalino, scivolata quasi elegante, chiusura del paraspruzzi, con mia moglie e gli amici dell'osteria Aquila Nera che mi danno una mano, come succede sempre quando m'imbarco da qui. Penso con gratitudine anche agli amici del CKF, il club di navigatori solitari del kayak che mi hanno insegnato a navigare in sicurezza. Ho concluso ieri il corso con Tatiana Cappucci e Mauro Ferro – ho le ossa doloranti - ma so cosa fare in caso di ribaltamento.
Anche se non è evidente, sto andando a Padova a prendere un caffè da mia mamma, un caffè lungo duecento chilometri di navigazione. La tazza fumante al posto della birra più buona del mondo, quella che assieme a Rumiz e Altan andai a scoprire a Istanbul, la volta che ci arrivammo in bici. Fonzari, amico di vecchia data, è con noi al molo e scuote la testa, diagnosticando in silenzio la mia incurabilità. Vendemmierò carri di diagnosi, durante questo viaggio. Via, staccarsi, partire. Saluto, un colpo di pagaia al molo e Starbuck fluttua già sulle onde mielose che distorcono i riflessi delle case e delle barche smerigliati dalle gocce di pioggia, avanzo verso la laguna tra lo sciacquio che riverbera sull'orribile cemento del nuovo porto. Per un centinaio di metri mi pare di essere un sommergibile atomico che esce dalla base sotterranea, ma poi, dove termina l'opera dell'uomo, i brusii della pioggia sull'acqua e lo sfrigolare delle cannelle confortano. Calcolo quattro giorni di pagaia in solitario, tra i trenta e i quaranta chilometri al giorno. La Litoranea Veneta, la linea di navigazione interna che univa e unisce le foci dell'Isonzo a Venezia sarà parte della mia rotta. Pazienza, gradita solitudine, flusso di pensieri e di rumori liquidi, uccelli, vento. Mi aspetta tutto questo, e tutto questo avrò, almeno spero.
Alla foce del Natissa i soliti bastardini dell'isoletta abbaiano. Biancaneve e i sette nani in cemento pitturato son lì, a far la guardia a un lenzuolo zuppo che sbatte nel grigio dell'aria. Solo che stavolta c'è anche Caterina, la donna che vive qui tutto l'anno. Scambiamo due parole e quando sa che vado a Padova mi dice:"Tu son mato, mamolo". Ma anche lei, che naviga stando ferma sulla sua isola rappezzata di cemento, è un buon soggetto.
Nonostante la pioggia le montagne si vedono tutte, e benissimo: l'arco azzurro si dispiega al completo, dal Matajur al Monte Cavallo, un resegone che ti dà l'impressione di navigare in un lago in quota, forse in Sudamerica o in Tibet. A Portobuso – due ore di pagaia - ci sono pochi turisti perché crisi più pioggia lavorano in squadra. Adocchio la scuola dove insegnò Pasolini e la casermetta della finanza in disuso. E la Grande Guerra.
«Il cacciatorpediniere Zeffiro ha sbarcato i cinquanta prigionieri sulla Riva degli Schiavoni. L'atteggiamento della popolazione di Venezia è stato incredibilmente nobile, i prigionieri rispondevano alle domande in italiano». Scriveva così "Il Piccolo" allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando i cinquanta prigionieri austriaci catturati a Porto Buso furono tradotti nella città lagunare. Se leggiamo i loro cognomi capiamo perché parlavano l'italiano. Eccoli: Corazza, Comar, Tognon, Boemo, Corbatto, Scaramuzza, Verzier, Pizzin, Furlanut, Sgubin, Gergolet, Cecot, Colautti, Cechet, Medeot, Sandrigo, Gaspari, Calligaris, Maurig, Canarutto, Froglia, Noni , Bevilacqua, Fragiacomo, Fumis, Malaroda, Trevisan, Cosulich, Rasatti, Hrovatin, Prettner, Devetag, Fabris, Verzegnassi, Faidiga, Kaucic. Insomma, l'Impero dei cognomi del nordest che si apprestava a affondare come la Viribus Unitis.
Ancora un'ora di pagaia – soffia un ostro perfetto - e poi la fame si fa sentire. Sbarco sull'Isola delle Conchiglie, m'incanto coi gabbiani che stridono come carrucole arrugginite, arrabbiati con l'intruso, fotografo cormorani, germani, aironi. E guardo soddisfatto Starbuck giallo giallissimo in questa sinfonia in grigio che è questa giornata.
Il problema adesso è trovar l'imbocco del canale che collega la laguna al Tagliamento, così tiro fuori il notebook e studio la zona con Google earth, da bravo inuit tecnologico. Ieri, con la carta topografica aperta sul pavimento della mia stanza, era tutto fin troppo facile. Adesso che sto seduto sull'acqua è come se guardassi la carta geografica posta orizzontalmente all'altezza degli occhi, di taglio. Lignano è lì, pare di toccarla, sul dosso che fino al 1903 era una lingua di terra che pochi documenti nominano. In quell'anno fu innestata la prima cellula staminale che proliferò fino a farla diventare la moderna città balneare che è oggi, ma dalla laguna il suo disordine, che arriva fin sulla riva, mi fa pensare a una città asiatica di fiume. Com'è diversa vederla dall'acqua e da dentro, passeggiando per i viali pieni di turisti. L'acqua riscrive la nostra percezione del paesaggio, ci strappa le certezze geografiche acquisite e le butta a mare.
Due pescatori mi dicono in friulano:«Di là, dove c'è quella costruzione in cemento». «Buona pesca!».«Non si augura mai buona pesca...»rispondono scocciati. Marea contraria, onde formate nel canale d'ingresso e qualche tuffo al cuore. Sfilano il cimitero, Lignano che sfuma e l'indecifrabile linea di costa a ovest, bassa e senza aperture. Mi perdo nei meandri di una palude finché l'eureka silenzioso per aver trovato l'imbocco del canale mi riempie di entusiasmo.
Le chiuse di Bevazzana, opera costruita durante la Grande Guerra per facilitare il trasporto bellico, sono tenute come il modellino di un museo della scienza. Tecniche ed eleganti, con le acque verdoline che s'avvolgono lentamente in gorghi quieti, è un piacere scivolarci in mezzo. Sbuco nel Tagliamento – la temperatura scende per l'acqua più fredda - e lo discendo per un chilometro e mezzo, imboccando il canale che mi porterà alla fine della tappa, al campeggio Capalonga di Bibione.
Col passare delle ore il cielo compatto di nubi si arrende al sereno e al tramonto succede la meraviglia: un arcobaleno verticale si riflette sull'acqua, le tonalità rosse e arancioni dei cirri e dei riflessi ti avvolgono come se fossi il centro di una sfera. Cielo di sopra, cielo di sotto. Mi trovo a tu per tu con una mia ombra inedita, che sembra una libellula meccanica che non riesce a volare: è la pagaia che viene proiettata dagli ultimi raggi sui canneti e sfarfalla a ritmo. Poi arrivano il buio e una falce di luna. Da brividi. Metto in funzione la luce alogena e seguo le briccole, finché appaiono le deboli luci della passeggiata a mare del campeggio che illuminano le peregrinazioni notturne dei cigni.
Suona il cellulare, è mia moglie che telefona. La trovo allo sbarco con Tiziana, un'amica. L'inuit della domenica torna il ragionier Rossi, e volentieri. Dopo un epico corpo a corpo con la tenda nuova mi registro alla reception. «Scusi, è per entrare liberamente» mi dice l'addetto, legandomi un braccialetto giallino al polso. Colore che mi ricorda un qualcosa di altri tempi, automaticamente. Ho un moto di rifiuto, ma poi mi adatto. Il ristorante dove mangiamo la pizza è deserto. Approfitto di una presa per ricaricare il computer di bordo – viaggio con un notebook per scrivere – e poi, dopo aver salutato mia moglie e Tiziana, torno al campeggio immerso nel sonno. È un grande villaggio di tende e bungalow, ognuno con la sua piccola proprietà privata, la biancheria a stendere, le automobili col telo. Forse ci sono anche le liti tra vicini, chissà.
C'è un profumo strano nell'aria, ma non è tiglio: scopro che è il detersivo con cui i bagni vengono mantenuti immacolati come quelli di una clinica. Dopo una giornata onirica il ritorno alla realtà di tutti i giorni prende le tinte di un sogno obliquo. In tenda, alla luce della lampada da navigazione, tiro fuori la mia Divina Commedia, lisa come un libro antichissimo. Vediamo... Sì, Ulisse va bene per chiudere la giornata, ragionier Rossi.
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