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L'INTERVISTAENRICO COMASCHIBuongiorno, Maestro. Iniziamo dalla sua passione per Dante. È nata ai tempi della scuola? Come lo aveva trovato allora? Come lo trova oggi?«A scuola? Tutt'altro: come si poteva essere appassionati di una qualunque cosa? Lo scientifico era una scuola punitiva, e per ragioni di contiguità con un amico le materie non mi hanno appassionato, in particolare quelle di carattere letterario. Dante, poi, è stato tra i meno amati di tutta la prima parte della mia vita. Ci si arrivava tramite la Commedia senza avere alcuna idea di chi fosse. Poi aveva un'iconografia penalizzante, distante: il suo era un libro di morti. Non è stato certo quello il momento per appassionarsi a Dante. Sono dovuti trascorrere decenni e una giovinezza da scioperato appassionato di jazz: se non lo sa, suonavo il clarinetto esibendomi in tutta Europa. C'era anche Lucio Dalla. Gli studi classici e altri interessi oltre al jazz e alle ragazze non avevano diritto di cittadinanza. Più tardi ho lasciato la musica perché non sarei diventato un grande musicista, ho lavorato in un'azienda alimentare. Poi il cinema mi ha cambiato la vita. In pieno '68 facemmo due film sessantottini, provocatori. Ero arrivato a Roma disperato e mi sono scontrato con il mondo cinematografico romano, fatto di persone molto colte. La cosa ha fatto scattare in me la necessità di cambiare. Da lì sono nati interessi letterari e nel 2002 mi sono occupato a fondo di Dante».Perché Dante, al di là dell'anniversario dello scorso anno? «Per me l'anno giusto per libro e film sarebbe stato proprio il 2002, ma la verità è che Dante andrebbe celebrato tutti gli anni e tutti i giorni. Meriterebbe ben di più di un anno di fanfare che non hanno prodotto tanto. I testi di Dante non sono stati letti più del solito».Lei ha lavorato sull'uomo. Cosa ha scoperto?«Il Dante essere umano è trattato pochissimo, sullo fondo, molto sfocato. Quando ho trovato il pretesto narrativo ho capito che c'erano lacune da colmare. Mi riferisco al viaggio di Boccaccio alla ricerca della figlia di Dante: così ho iniziato un racconto di vita del Sommo Poeta a 29 anni dalla sua morte. In Rai feci subito il contratto, poi si sono succeduti direttori che non hanno apprezzato il lavoro e sono trascorsi 20 anni, che però non sono stati inutili. Anzi. Se avessi fatto libro e film 20 anni fa sarebbe stato tutto più debole e meno convincente anche a livello didattico. Ho arricchito il lavoro di ricerche e confronti con dantisti come Francesco Mazzoni ed Ezio Raimondi. Anche altri dantisti mi hanno accompagnato in questo lavoro. Boccaccio in un certo senso mi proteggeva, ma avevo bisogno di avere un semaforo verde dagli esperti. La cosa che mi ha stupito è che di fronte a libro e film i dantisti non coinvolti hanno apprezzato tantissimo, anche scrivendone, perché hanno capito che, pur da dilettante, il mio tentativo di renderlo umano e seduttivo va nella direzione giusta. Le persone sono indotte a leggere. Sia chiaro a tutti: io sono Boccaccio».Quali aspetti della vita del Poeta la colpiscono di più? Cosa definisce davvero Dante?«Il dolore continuo. È una cosa che mi colpisce: in tutti i casi della vita produce conoscenza. Lo vedo attraverso l'esperienza con gli attori: chi ha sofferto ha più sensibilità. Certo non auguro il dolore a nessuno, ma mi capita di notare come i ragazzi con problemi siano i più sensibili, abbiano più da dare. Dante a cinque anni perde la madre, sostituita subito dal padre, e gli viene imposto un fratellastro. Poi viene la storia con Beatrice: nove anni di pedinamenti prima di ricevere un saluto. E poi Beatrice muore. Mettiamo anche in conto il tradimento di Guido Cavalcanti». Par di capire che a Dante il dolore sia stato utile a sviluppare l'arte. La pensa così?«La sua è una domanda molto intelligente, grazie. La risposta è sì, perché Dante si è sentito risarcito attraverso la sua stessa creatività, la sua dismisura poetica. Certo Dante aveva tutte le qualità, tranne la modestia. Ma il risarcimento di tanto dolore è consapevolezza di doti ineguali. La Commedia è un libro sacro, che finisce così: A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa, l'amor che move il sole e l'altre stelle. È il punto più alto. Anche se fosse vissuto altri vent'anni, Dante non avrebbe potuto andare oltre. Diciamo che ha davvero toccato il soffitto dei soffitti. Il punto di arrivo coincide con la sua morte, come un percorso inevitabile».La morte è un tema. Ma c'è anche l'amore. Lei prende in considerazione la Vita Nova e l'amore per Beatrice. Che riflessioni ha fatto, in merito, durante la scrittura del libro e la successiva lavorazione del film?«Nella Vita Nova mi sono riconosciuto, è il perimetro, anche senza considerare la magnificenza dei sonetti. Il momento del saluto, il sogno che lui fa di Beatrice che gli mangia il cuore: è una cosa di una potenza incredibile: orrorifica, certo. Quando abbiamo girato, la troupe era impressionata, sembrava una cosa di David Linch. Beatrice aveva la certezza di essere Beatrice, lei è tutt'altro che una Barbie. Sa chi è e ad un certo punto compie questo percorso e fa trascorrere nove anni prima di girarsi e salutare Dante. Poi fa una cosa che la renderà perpetua: si sposa e muore. Ecco, nessuno è più presente dell'assente. Questo percorso non lo puoi insegnare accedendo direttamente alla Commedia senza aver anticipato veramente chi è stata Beatrice per se stessa. Mi auguro che lei veda il mio film: paleso questa ipotesi. E le dico che sono uno stilnovista. Quella creatività lì è solo dei ragazzi:bisogna tener dentro le paure e l'orrore, la vastità immaginativa. Io lo faccio».Mia moglie è nata grazie ad un intervento chirurgico del professor Giardina, che lei ben conosce. Talvolta siamo legati da un filo invisibile: un po' come Dante a Virgilio, ad esempio. Così lontani eppure così vicini...«Ha ragione, a questo punto io e sua moglie scopriamo di essere quasi parenti. Quanto alla vicinanza con Virgilio, avevo letto l'Eneide da impreparato quando ero in America dove lavoravo con la Morante. È stata tra le letture più straordinarie e commoventi che io abbia mai fatto. Il livello poetico è altissimo, leggerla così con le note è stato entusiasmante. Ora so che i classici vanno affrontati e li leggo. Per anni sono andato al foro romano con i classici latini sotto braccio. Andavo a leggere là dove le cose erano accadute. E leggendo queste storie ho scoperto l'enormità dei temi trattati rispetto ai miei piccoli problemi concreti. Ero di fronte alla vastità e alla bellezza».Dal libro al film. Era un passaggio che aveva già in mente, oppure è stata una scelta successiva? «Ho fatto "Magnificat" nel 1993: il frutto della mia scopetta dell'Alto Medioevo grazie al lavoro dei francesi, che hanno indagato e riaperto le finestre dando luce, scrivendo testi fantastici. Io ho agito con lo spirito di Rossellini, che ha fatto cinema divulgativo scoprendo le cose, provando la necessità di condividerle. La stessa cosa è successa a me con Magnificat: ho raccontato un modo di vivere che nessuno immagina. Ho anche vinto un sacco di premi, e il film che ha valore didattico: ho scoperto così il Medioevo. Poi ho fatto "I cavalieri che fecero l'impresa", ambientato nel 1271, sul trafugamento della sindone. A livello di immagini non è certo un lavoro da fiction televisiva, me lo faccia dire. Il materiale che ho utilizzato è enorme. Qui nel mio studio, ad esempio, c'è ancora una catasta di studi su Dante di cui mi dovrei liberare, ma non ci riesco. Una volta "Il codice diplomatico dantesco" di Renato Piattoli non si trovava in Italia, l'ho comprato in Canada. Un patrimonio incredibile».Passiamo a Pier Paolo Pasolini. Mi racconta come è andata la vicenda della sceneggiatura di Salò?«Pasolini aveva fatto il Decamerone, con successo. Allora tutti i produttori italiani, nella loro pigrizia creativa, volevano fare film così, boccacceschi. Enrico Lucherini, press agent, suggerisce alla Euro International Film di produrre un lavoro ispirato a de Sade e commissionano a me e altri due di scrivere una sceneggiatura ispirata a "Le 120 giornate di Sodoma". Malgrado si trattasse di un libro tremendo, molto distante dal mio mondo, di fronte alla necessità ci mettiamo al lavoro. A quel punto vedo un film di Sergio Citti,"Storie scellerate", e resto incantato. Vado alla Euro e dico di farlo fare a lui: è amico di Pier Paolo Pasolini, con il suo aiuto saremmo riusciti a proteggere il film dalla censura. Il produttore porta tutto a Pasolini, lui lo legge e poi sentenzia: "Non mi piace la sceneggiatura, ma vorrei leggere il testo". Allora io gli porto il libro a casa sua. Mi apre e gli dico: "Buongiorno, io sono quello che ha scritto la sceneggiature che non le è piaciuta". Lui mi chiede di dare una mano a riscriverla. Io ero davvero lusingato di lavorare con Pasolini e Sergio Citti. Forse lei non sa che questo lavoro è stato scritto in due mesi con grandissima forza, con disperazione. Pasolini voleva chiudere il ciclo della vita ("Il Decameron", "I racconti di Canterbury" e "Il fiore delle Mille e una notte"). E il lavoro, tutto, si svolgeva in un appartamento che sembrava quello di un assicuratore, con la madre e la cugina di Pasolini in cucina. Mentre parlavamo di coprofagia ci chiedevano: "Pier Paolo, le melanzane le vuoi fritte o al pomodoro?". Insomma, noi finiamo e la Euro fallisce. Veniamo pagati lo stesso, ma a quel punto passano due anni e una sera sono a cena al ristorante quando vedo Pasolini con Laura Betti. Vado al loro tavolo e lui mi dice che avrebbe dovuto fare un film su San Paolo, ma che era saltato. E io gli dico: fallo tu, Salò. Lui replica che non ha più la sceneggiatura. Il giorno dopo vado in via Eufrate per portargli il testo. Ma non è finita qui, sa? Dopo due mesi mi chiamano i legali di Grimaldi. Vado all'appuntamento all'Eur e mi dicono che Euro International è fallita e nel fallimento c'è compresa la sceneggiatura. Spiegano che Pasolini vorrebbe fare il film, ma bisogna dare nuova identità alla sceneggiatura. "Insomma, lei dovrebbe togliere il suo nome", mi dicono, "e noi le riconosciamo un compenso di 14 milioni". Così ho tolto il nome: per quel lavoro sono stato pagato tre volte»."La casa dalle finestre che ridono" e "Zeder": dove ha pescato questo immaginario? Pare che lei senta il bisogno di ritornare periodicamente all'horror: "Il Signor Diavolo" ne è un esempio. Mi spiega?«Un bambino nei primi cinque anni della sua vita: io sono quello. Ho vissuto in campagna per la guerra, vivevo un religiosità preconciliare. Non me ne sono mai sbarazzato, anche se i miei coetanei sono rinsaviti. Io invece sono rimasto là. Le confesso una cosa. Penso ancora: mio padre e mia madre cosa avrebbero fatto? Perché, vede, io sono ancora figlio. Succede che nella circolarità della vita rimuovi la giovinezza che viene sostituita dall'infanzia».Da ultimo, Maestro, dovrebbe sciogliere un mistero che mi tormenta da decenni. Alla fine de "La casa dalle finestre che ridono" il protagonista Lino Capolicchio muore? Lo chiedo perché sembra evidente, ma d'altra parte si sente l'arrivo di una sirena e spunta un braccio che si appoggia ad un albero. Segno, forse, che i soccorsi stanno arrivando.«Il protagonista muore, eccome se muore. Se glielo dico io si può fidare. Ma è successa una cosa bizzarra. Quando abbiamo fatto una proiezione in anteprima per lui, il distributore ha pretesto che il film lasciasse una speranza. Il braccio contro l'albero è mio: andammo di gran corsa a girare quest'ultima scena che in origine non c'era. Il film finiva con un'inquadratura sulla chiesa, senza sirene. Abbiamo dovuto adeguarci». --© RIPRODUZIONE RISERVATA